Cornelio Fabro C. S. S.
Orizzontalità e verticalità della libertà
*
Non è una scoperta confessa che
viviamo un'epoca di crisi, che l'intera civiltà a tutti i livelli e in tutti
i contenuti è in crisi cioè percorsa da fremiti e oscillazioni paurose che
mettono in contestazione ed in pericolo, non solo la cupola dell'orgoglioso
pantheon della scienza e della tecnica, ma i pilastri stessi della concezione
dell'uomo. Sembra che l'uomo si senta tradito dall'uomo -lungo tutto l'arco
della sua storia- nella famiglia, nella scuola, nella società politica e nella
stessa società religiosa ch'è fondata per tradizione -e sembra anche per principio-
sull'autorità. Il dilemma ovvero l'alternativa di libertà-autorità sembra abbia
raggiunto la tensione estrema della rottura in una frenesia di chiarezza apollinea
e di turgore dionisiaco irrefrenabili che sembrano sfuggire ad ogni tentativo di
diagnosi e di analisi che ci possa orientare per la guarigione.
Ma quale crisi? Crisi di verità o crisi di libertà? Piùttosto vorremmo
dire: crisi di verità della libertà ch'è crisi della libertà della
verità in quanto è la tensione per la determinazione della verità che ha
messo in crisi la libertà ed inisieme è la determinazione ultima della
libertà che ha messo in crisi la verità. Più precisamente, è stata la
progressiva e inarrestabile perdita nell'Occidente -Heidegger parla di
oblio e trascuratezza- della verità dell'essere (Seinsvergessenheit-
Seinsverlassenheit) (l) a
togliere la piattaforma della realtà della libertà lasciando
l'uomo privo di qualsiasi appoggio e valido riferimento in balia
dell'evento come ammette oggi lo stesso Heidegger
(2).
La realtà è, possiamo dirlo subito, che senza l'autentica trascendenza
(la verticalità) non può reggere neppure l'immanenza (l'orizzontalità),
senza il riferimento dell'io all'Assoluto -al Principio che l'ha posto
(3)-
anche l'uomo crolla nel caos dell'infraumano ossia -nella
terminologia che oggi è in voga- senza verticalità non ha senso né
dimensione alcuna neppure l'orizzontalità. L'orizzonte, anche qui, non
ha senso che se esso presenta una realtà manifesta ch'è il mondo, ossia
in riferimento al limite ovvero nell'orizzonte ch'è lo stesso uomo nella
tensione appunto della libertà, in parte visibile ed in parte invisibile,
ed è l'invisibile che sta aldilà come riferimento ultimo che da rilievo
al limite ed al mondo che lo contiene ma non lo trattiene, l'Invisibile
sempre presente che tutti i popoli hanno chiamato Dio. Eclissi della
verità dell'essere, eclissi della presenza della libertà, eclissi
dell'esistenza di Dio ... e questo in un'epoca come la nostra in cui
come mai prima -anche nei tempi di maggiore affermazione dell'uomo sulla
natura e di splendori nell'arte e nella speculazione- pare che l'uomo
abbia raggiunto lo zenit delle sue possibilità cioè della sua libertà.
La tensione di orizzontalità e verticalità della libertà esprime la
dialettica interiore della storia nell'aspirazione inesauribile che
l'uomo prova di chiarire a se stesso il fondo della verità e l'esito
ultimo del suo destino. Ad essa si può dire che fanno capo tutte le
tensioni della storia sacra e profana, la quale non è nel suo
distendersi che il tendersi dello spirito per il dispiegamento della
libertà: l'impegno per la sua difesa quand'è posseduta e la lotta per la
sua conquista quand'è perduta. Tensione all'apparenza, ovvero nella
realtà della presentazione immediata, multivalente e policroma che si
pone e propone in tutte le forme di civiltà ed a tutti i piani della
coscienza come quella che intende afferrare il tutto della vita dello
spirito e portarla alla sua ultima determinazione qual'è la tensione di
autorità e libertà, di libertà e necessità, di verità e libertà, di
ragione e fede ... per il senso della libertà: tensioni queste, sul
piano speculativo, che richiamano sul piano reale la tensione di
Singolo e Società nel mondo antico e di Chiesa e Stato nel mondo moderno
... per la realizzazione storica della libertà. Sul piano poi della
riflessione teologica, circa il senso dell'elevazione della libertà per
l'esito della salvezza, c'è soprattutto la tensione Pelagio-Agostino al
tempo della prima affermazione del Cristianesimo che si cimenta
direttamente col fatalismo e naturalismo del mondo classico, nel Medio
Evo cristiano la lotta fra Papato e Impero e poi, come risposta
all'Umanesimo del Rinascimento le tensioni nel Seicento di
Molinismo-Tomismo, dell'Augustinus di Giansenio, delle Provinciales di
Pascal, nel Settecento le polemiche sull'amore puro ed il quietismo,
nell'Ottocento lo scontro diretto fra il pensiero moderno e l'ortodossia
culminato nella condanna del Syllabus di Pio IX ... - tensioni tutte che
annunziano e svolgono il conflitto di orizzontalità e verticalità nel
tentativo di dare senso e ragione a ciò, com'è appunto l'atto della
libertà, che dev'essere ad un tempo secondo la ragione e sopra ovvero
oltre la ragione cioè, come impegno personale del rischio e
affermazione responsabile dell'amore.
La formula odierna di siffatto plesso di tensioni, dopo l'esperienza
radicale della soggettività fatta dal pensiero moderno, è l'opposizione
ossia tensione (o antitesi) di trascendeza e trascendentale: si vuol
dire che alla visione tridimensionaIe della realtà del Cristianesimo di
mondo-uomo-Dio, è stata sostituita per tappe la visione unidimensionale
centrata sull'uomo secondo tutte le possibili infinite, cioè indefinite,
valenze della soggettività umana che si dissolvono via via
nell'estroversione totale della libertà secondo le analisi della
fenomenologia pura, dell'analitica radicale della filosofia del
linguaggio, dell'economismo radicale del materialismo dialettico e
storico, della scelta di non scegliere ovvero dell'essere come evento
cioè farsi puro dell'evennto nell'esistenzialismo... Il bilancio quindi
della «storia trascendentale della libertà», se così si può dire questa
ricerca irrequieta e tormentata del fondamento e del senso della libertà,
può sembrare poco lusinghiero; esso attesta comunque la passione
insonne dell'uomo di determinare quel punto dentro e mediante il quale
egli deve poter cogliere ad un tempo il suo inserimento nel mondo ed
insieme il riferimento a Dio, un «punto fuori del mondo» ma ch'è ancora
al di qua di Dio, che non è Dio stesso se Dio dev'essere il punto di
arrivo per il godimento supremo. Questo punto dev'essere anzitutto
nell'uomo stesso, è infatti la sua libertà originaria e ineffabile,
quanto evidente e inesauribile ad ogni livello della vita umana -etico,
politico, religioso...- questo punto sta perciò al centro della persona
ch'è anzitutto e soprattutto centro e attuazione di libertà.
Secondo le dichiarazioni di Hegel tale concetto di libertà universale
radicale, come nucleo originario della spiritualità di ogni uomo, è
entrato nel mondo soltanto con il Cristianesimo. Esso è ignoto al mondo
orientale, che riservava la libertà al despota, ed è rimasto estraneo
allo stesso mondo greco-romano che, pur avendo la coscienza della
libertà, sapeva che soltanto «alcuni uomini» sono liberi (come cittadino
ateniese, spartano, romano...) e non l'uomo come tale cioè ogni uomo
in virtù della sua umanità e non soltanto in virtù del censo, della
forza, del carattere, della cultura ... ossia in virtù di quella che
Kierkeegaard chiama l'ingiustizia delle distinzioni particolari nel
banchetto della fortuna dal quale rimane escluso l'uomo comune: cioè un
ritorno al paganesimo. Quest'idea della libertà è venuta nel mondo
soltanto col cristianesimo secondo il quale l'individuo (il Singolo)
come tale è stato creato ad immagine di Dio ed ha valore infinito ed è
destinato perciò ad avere un rapporto diretto con Dio come spirito così
che «...l'uomo è destinato a somma libertà»
(4). Scrive Hegel infatti:
«Certamente il soggetto era individuo libero, ma si sapeva tale soltanto
nell'unità colla propria essenza: l'Ateniese si sapeva libero soltanto come
Ateniese, e altrettanto il cittadino romano come ingenuus. Ma che l'uomo
fosse libero in sé e per sé, secondo la propria sostanza, che fosse nato
libero come uomo: questo non seppero né Platone, né Aristotele, né
Cicerone, e neppure i giuristi romani, benché solltanto questo concetto
sia la sorgente del diritto. Nel principio cristiano per la prima volta
lo spirito individuale personale, è essenzialmente di valore infinito,
assoluto; Dio vuole che tutti gli uomini siano aiutati». La
caratteristica fondamentale quindi di essere uomo è di essere libero e
la storia dell'umanità è la faticosa ricerca dei fondamenti di questa
libertà e tale ricerca non è ancora finita. Continua infatti Hegel: «Nella
religione cristiana si fece strada la dottrina secondo cui tutti gli
uomini sono uguali davanti a Dio, perché Cristo li ha chiamati alla
libertà cristiana. Queste affermazioni rendono la libertà indipendente
dalle condizioni di nascita, stato sociale, educazione, ecc., e sono
enormi le conseguenze di queste idee, ma tuttavia esse sono ancora
diverse da ciò che costituisce il concetto dell'uomo come essere libero.
Il sentimento di tale determinazione fermentò attraverso i secoli e i
millenni, quest'impresa ha prodotto i più enormi rivolgimenti; ma il
concetto, la conoscenza che l'uomo è libero per natura, questa scienza
di se stessi non è antica» (5).
Nelle pieghe del discorso hegeliano, categorico e preciso solo in
apparenza, ci sono delle allusioni e insinuazioni in un senso ancor più
preciso e categorico che mette o puo mettere in crisi o contestazione,
se così piace, l'affermazione fondamentale. Secondo Hegel infatti, se
bisogna dire e riconoscere ch'è stato il Cristianesimo a portare il
messaggio di libertà universale e radicale, in realtà per Hegel esso non
è riuscito di fatto a realizzarlo come attuazione di vita: ciò è accaduto
solo nell'epoca moderna, prima con Lutero nel campo religioso e con
Machiavelli in quello politico, e poi con l'identità dialettica di
teoria e prassi nell'idealismo tedesco
(6). Secondo Hegel infatti solo
le nazioni germaniche sono giunte nel Cristianesimo alla coscienza che
l'uomo è libero come uomo: questo per lui significava che il
Cristianesimo storico si era limitato alla sfera religiosa, mentre si
trattava di applicare e realizzare, quel principio in tutta la realtà
mondana. Ed è ciò che la filosofia moderna, dopo la rottura con
l'autorità fatta da Lutero, ha realizzato di tappa in tappa fino al
superamento prima della religione nella filosofia e nella politica
nell'idealismo verticale e poi alla negazione radicale di ogni
transcendenza nell'orizzontalità senza residui dell’antropologia
trascendentale delle filosofie contemporanee.
Checché sia quindi delle pretese universalistiche del discorso
hegeliano, possiamo prendere atto sia del posto di privilegio assegnato
al Cristianesimo nell'affermazione e rivendicazione della libertà, sia
del trattamento di favore usato verso il pensiero moderno per la
fondazione ed attuazione della medesima libertà. Infatti si puo anche
qui accettare la prospettiva o diagnosi di Heidegger sulla natura
propria dello sviluppo del pensiero moderno il quale non ha tanto
realizzato la fondazione del conoscere come «certezza», quanto -e
proprio per aver messo al centro della verità il momento soggettivo
della Gewissheit- ha risolto il conoscere nel volere ed il sapere
nell'agire.
Ora, procedendo in modo largamente schematico, possiamo dire che
l'intero pensiero moderno si risolve per l'appunto nella ricerca della
fondazione dell'attività dello spirito come libertà così che lo stesso
cogito che Cartesio fa sorgere dal dubbio radicale, come negazione di
ogni presupposto, è essenzialmente un atto di libertà. Di qui
scaturiscono le direzioni fondamentali nel pensiero moderno per
concepire la struttura della libertà nel suo attuarsi: il razionalismo o
verticalismo dell'astrattezza, l'empirismo od orizzontalismo della
concretezza, ed infine l'idealismo come tentativo di sintesi convergente
dei due movimenti precedenti. In realtà, tutti e tre i momenti o
movimenti ora indicati sono radicati nel comune punto di partenza
dell'identità del plesso di dubito-cogito, al quale corrisponde il
plesso di cogito-volo come spontaneità attiva ponente dello spirito e
quindi come emergenza dell'atto che rimanda unicamente a se stesso
perché si fonda unicamente su se stesso. Però il riferimento nel suo
compiersi all'interno della spontaneità della coscienza avviene in modi
diversi, nel tentativo precisamente di colmare la lacuna ovvero
l'inadeguatezza che l'un movimento intende fare del proprio opposto
oppure, com'è il caso dell'idealismo, della lacuna di entrambi.
Nella concezione verticale del razionalismo assoluto stoico-spinoziano
bisogna dire con tutto rigore che spontaneità e libertà coincidono in quanto
s'identificano con la razionalità pura ch'è stretta e rigorosa necessità:
tutto procede secondo la rigida concatenazione delle cause nella
corrispondenza fra anima e corpo, di guisa che la convinzione della
libertà, intesa come capacita di scelta, è soltanto un illusione
psicologica. Così Spinoza: «Falluntur homines, quod se liberos esse
putant, quae opinio in hoc solo consistit, quod suarum actionum sint
conscii et ignari causarum, a quibus determinantur... Nam quod aiunt,
humanas actiones a voluntate pendere, verba sunt, quorum nullam habent
ideam» (7).
Il verticalismo è quindi rigido determinismo, dal quale,
malgrado i suoi molteplici tentativi di sfuggire all'aborrito spinozismo,
non riesce a distaccarsi l'abile Leibniz: «Libertas est spontaneitas
intelligentis, itaque quod spontaneum est in bruto..., id in homine vel
in alia substantia intelligente, altius assurgit et liberum appellatur».
Leibniz vuole subito scindere la spontaneità dalla necessitas, ma per
ricadere subito nel determinismo e quasi con gli stessi termini di
Spinoza. Infatti, dopo aver rigettato la libertà d'indiferenza, precisa:
«Eo magis est libertas qua magis agitur ex ratione, ea magis est
servitus, qua magis agitur ex animi passionibus»
(8). Là, nella ragione,
c'è la perfetta interiorità e necessità, qui nelle passioni
l'esteriorità e la contingenza. La libertà verticale si risolve quindi
nella necessità di struttura del contenuto.
Nella concezione orizzontale dell'empirismo la spontaneità della libertà
è spiegata invece in funzione dell'atto e precisamente della contingenza
che compete all'atto. Secondo Locke la libertà (Freedom, Liberty)
consiste nella «capacità attiva (power) di agire o non agire» ed essa
coesiste, com'egli spiega ampiamente, con la necessità della volizione
poiché l'esistenza e non esistenza dell atto della volontà segue
perfettamente la determinazione e non semplicemente la preferenza della
sua volontà. A suo avviso non c'è nulla di strano che necessità e
libertà coesistano poiché chi è libero non è propriamente la volontà ma
l'uomo. Locke osserva di avere in passato presentato il problema in modo
insoddisfacente ed ora riassume la sua posizione con la definizione: «Libertà
è un potere di agire e non agire secondo come la mente dirige»
(9). Egli
rigetta, non meno di Spinoza e di Leibniz, la libertas indifferentiae
della tarda Scolastica in quanto per poter agire è sempre indispensabile
un atto di giudizio dell'intelletto e la conseguente decisione della
volontà. In questa distinzione fra volition deterministica e necessaria
e liberty contingente sembra che Locke abbia cercato di sfuggire alla
morsa del determinismo razionalista e per questo è considerato con Kant
uno dei fondatori della democrazia moderna.
Kant, com'è noto, è rimasto a mezza via accostando e mantenendo ambedue
le posizioni: la volontà come noumeno (ut natura), come spontaneità
razionale, segue il deterninismo rigido, mentre nella sua
estrinsecazione è soggetta alla contingenza come fenomeno (ut facultas)
secondo la terminologia tradizionale. Infatti nel Fondamento della
critica dei costumi (1780) Kant può precisare: «Il concetto di libertà è
la chiave per la spiegazione della autonomia della volontà»
(10). La
deduzione della libertà si compie nella Critica della ragion pratica
mediante l'appartenenza necessaria di moralità e libertà e la
connessione di libertà, moralità e felicità
(11): dove l'esistenza
inconcussa della legge morale costituisce la chiave di volta della
deduzione trascendentale.
Nuovo capovolgimento del rapporto di necessità-libertà, di necessità e
contingenza ... si ha con l'idealismo ma in direzione di una sempre
maggiore interiorizzazione ed appartenenza dell'atto a se stesso come
autodeterminarsi: è questo il momento del suo «andare-in-se-stesso ) (Insichgehen)
ch'è il rivelarsi della sua essenza e che costituisce il punto di
rottura per il passaggio al pensiero contemporaneo ed al confronto
problematico col pensiero tomista della libertà come atto. Si puo
riconoscere che fino a Kant il fondo dell'essere, qual è portato dal cogito,
è il Wille zum Wissen; a partire invece dall'idealismo e nelle
contemporanee «filosofie della caduta» dopo Nietzsche esso e il Wille
zur Macht. Infatti l'assolutezza del sapere ovvero della certezza non
procede, secando l'incisiva formula di Fichte, dal conoscere ma è... «un
prodotto della libertà assoluta la quale perciò non soggiace ad alcuna
regola o legge od impulso estranei ma è essa stessa quest'assoluta
libertà» (12).
Di qui la riduzione trascendentale dell'essere alla
libertà: «Nessuna natura e nessun essere se non mediante la volontà, i
prodotti della volontà sono il vero essere» (keine Natur und kein Sein
ausser durch den Willen, die Freiheitsprodukte sind das rechte Sein).
Per Fichte il cominciamento, che deve ormai soppiantare il cogito
astratto, è «la coscienza della libertà» ch'è il principio primo ed
immediato da cui procede l'essere. L'orizzonte della verità è quindi
capovolto: non e più la presenza del mondo, l'essere del mondo, ciò che
fa il cominciamento è lo status in quo della verità, ma è l'Io che come
atto di libertà, fondato in se stesso, è un cominciare assoluto
(13). È
quest'identità allora di libertà e sapere che costituisce l'esperienza
vitale profonda dello spirito come totalità ossia quella che Fichte
chiama la «intuizione intellettuale» (intellektuelle Anschauung) che
darà l'avvio alla speculazione di Schelling e di Hegel. La sintesi
infatti di orizzontalità dell'agire umano ch'è il Sollen kantiano e
dell'Io come assoluto metafisico di assunzione spinoziana resta in
Fichte allo stadio iniziale che non oltrepassa ancora l'orizzonte
dell'agire umano. La verticalità della libertà si compenetra
dell'orizzontalità e, viceversa, con Schelling che intende superare
espressamente l'opposizione di Kant a Spinoza e quindi di fondere senza
residui necessità e libertà. Egli s'ispira in questo espressamente anche
a Lutero ed a Böhme, come Hegel, in un plesso ch'è mistico-teosofico e
razionale-filosofico ad un tempo: per Schelling l'atto, ch'è il
fondamento della vita dell'uomo, è un atto eterno per mezzo del quale la
vita di ogni uomo si congiunge al principio originario (Urgrund) della
creazione. E rifacendosi a Lutero (de servo arbitrio), Schelling pensa
che con siffatta sintesi di necessità e libertà si possa risolvere
l'enigma del «problema del male» ed elevarlo alla forma di accadere puro,
perfino nel caso di Giuda: «Che Giuda divenisse un traditore di Cristo,
non poteva impedirlo né lui stesso né alcun'altra creatura e tuttavia
egli tradì Cristo non costretto ma volontariamente e con piena libertà»
(14). L'atto della libertà
quindi assume in questo inserimento a parte ente nella creazione
eterna ed ab aeterno, a monte quindi della storia ed in una forma
di predestinazione trascendentale, una struttura ed un valore assoluti.
Agli antipodi di Kant, Fichte e Schelling, si pone Hegel proiettando
l'attuarsi della libertà nella realtà vorticosa e trascinante della
storia in cui si attua lo «Spirito del mondo» (Weltgeist) ch'è sintesi
in atto di finito ed Infinito, di tempo ed eternità: ma la forma di
questa libertà è sempre l'Infinito, l'eternità, l'Assoluto quiescente
(das Bleibende) come vuole Spinoza. La libertà quindi coincide con la
Volontà assoluta dello Spirito assoluto ed è in sé determinata come
Volontà assoluta. Una libertà che fosse riservata all'individuo come
persona singola è da Hegel tacciata di «arbitrio» ch'è l'opposto della
libertà (das Gegenteil der Freiheit), essa costituisce e coincide con la
servitù stessa del peccato (die Knechtschaft der Sünde): il peccato
consiste nell'atteggiamento o pretesa del Singolo di essere o scegliere
per sé, di contrastare l'affermarsi dello Spirito Universale nella
storia universale e quindi di contestare il principio -avanzato prima da
Schiller e ripreso poi da Hegel- che «la storia del mondo è il giudizio
del mondo» (Weltgeschichte als Weltgericht)
(15). Il nocciolo di
questa dottrina della libertà impersonale, che assume l’identità della
verticalità con l'orizzontalità ove la verticalità dell'Assoluto diventa
noumeno e l'orizzontalità dei singoli è ridotta a fenomeno, è non solo
che volontà e libertà coincidono, come nel razionalismo ed in Kant, ma
che la libertà si realizza come attuarsi della Totalità nella storia
così che di fronte al divenire della storia che avanza, sospinta dallo
Spirito del mondo (Weltgeist) non vale alcuna resistenza o contestazione.
È la formula metafisica sia della volontà di potenza del Superuomo di
Nietzsche e dell'isolamento dell'Unico di Stirner, sia della
sopraffazione del collettivo (della massa, del partito, dell'ordine
stabilito...) contro i quali Kierkegaard avanzerà la protesta del «Singolo
davanti a Dio».
La filosofia novissima ha fatto perciò un ulteriore rovesciamento del
concetto di libertà, quello dell'appaiamento senza residui dell'essere
all'apparire come atto intrascendibile, né metafisico né teologico, nel
senso che la volontà pone solo e sempre se stessa e ponendo se stessa
pone l'essere secondo le infinite possibili vie dell’esistenza: è la
libertà come orizzontalità pura, quella ch'è secondo Heidegger «l'aperibilità
dell'aperto» (das Offenbare eines Offenen), la libertà che costituisce
appunto «l'essenza della verità» (16).
È la libertà che si da e non può darsi di volta in volta che come atto.
È il bei-sich-selbst-sein adottato anche da Rahner
(17) per rivendicare
l'assoluta libertà dall'autorità della stessa ricerca teologica.
* * *
La filosofia moderna quindi è permeata di volontarismo: sotto la scorza
dell'istanza gnoseologica, volta alla «certezza del conoscere», essa ha
sviluppato in realtà l'autonomia dell'agire, l'indipendenza della norma
e la libertà creatrice. Nella filosofia cristiana invece la libertà
comporta il doppio riferimento o fondamento che dir si voglia: anzitutto
al presentarsi del mondo come oggetto in sé condizionante la sfera della
scelta, poi all'esistenza di Dio creatore del mondo e quindi primo
principio della stessa libertà ed ultimo fine della scelta libera. Il
momento oggettivo sembra quindi soverchiante rispetto a quello
soggettivo così che l'intelletto quasi finisce per avere il sopravvento
sulla volontà. Procederemo quindi per momenti dialettici.
A. - Dominio oggettivo formale dell'intelletto. Tutta la dottrina
tomistica della libertà sembra svolgersi in sostanza sulla trama dei
principi dell'Etica Nicomachea ch'è indubbiamente intellettualistica
(18). Per Aristotele,
ed è il caposaldo del realismo, l'agire presuppone
l'essere e l'inclinazione come aspirazione al bene e stimolo ad agire
presuppone la forma sia naturale del soggetto agente sia intenzionale
dell soggetto dell'appetito ch'è il bene. La subordinazione della
volontà all'intelletto nell'attuazione della libertà è ferrea: ogni atto
di volontà, sia circa il fine (intentio) sia circa i mezzi (electio), è
subordinato ed è perciò la conseguenza di un atto da parte
dell'intelletto:
1) La intentio finis segue alla apprehensio boni in communi (la felicità).
La dinamica della volontà non ha alternativa così che è «necessario»
tendere alla felicità una volta che ci pensiamo e questa necessità di
aspirare alla felicità è messa da S. Tommaso in corrispondenza
all'evidenza nella sfera speculativa della apprehensio entis e come la
radice dei primi principi morali (19).
Le dichiarazioni sono perentorie:
«Intentio nominat actum voluntatis, praesupposita ordinatione rationis
ordinantis aliquid in finem» (S. Th., I-II, q. 12, a. 1 ad 3). Ma la
volontà e subordinata all'intelletto non solo nella intentio ch'è il
proposito pratico di raggiungere il fine con i mezzi adatti ma anche
come «... simplex voluntas», o volontà assoluta del bene come
aspirazione iniziale ed infine come fruitio o godimento terminale nel
fine acquisito (ad 4). Quindi «...sicut intellectus naturaliter et ex
necessitàte inhaeret primis principiis, ita voluntas ultimo fini»
(20).
2) La electio mediorum ad finem. Essa e concepita al modo di sillogismo
pratico che segue parimenti la dinamica del sillogismo specultivo così
che la sfera della libertà di scelta è ristretta alla scelta dei mezzi
non indispensabili al fine od esattamente ai «...particularia bona quae
non habent necesssariam connexionem ad beatitudinem» (S. Th. I, q. 82,
a. 2). Come l'aspirazione al fine costituisce la sfera della necessità,
casi l'ambito della scelta costituisce la sfera della «contingenza»,
dove la volontà può spaziare nella scelta. La valenza della libertà è
concepita «a parte objecti» cioè più dall'imperfezione dell'oggetto
particolare che non sazia completamente la volontà, che non dal dominio
attivo della volontà così che perfezione dell'oggetto buono e necessità
di aspirazione coincidono. E S. Tommaso ricorre espressamente ad un
esempio di soprafazione fisica...: «Movens tunc ex necessitàte causat
motum in mobili, quando potestas moventis excedit mobile, ita quod tota
eius possibilitàs moventi subdatur. Cum autem possibilitas voluntatis
sit respectu boni universalis et perfecti, non subiicitur eius
possibilitas tota alicui particulari bono. Et ideo non ex necessitate
movetur ab illo» (21). Nella dinamica della scelta dell'oggetto la
volontà viene al terzo posto, dopo l'azione dell'intelletto e della
ragione, così che alla volonà compete il momento materiale (del tendere),
mentre alla ragione è riservato quello formale di guida e disposizione
dell'atto stesso: è l'atto del iudicium, con cui si conclude il
sillogismo pratico, che decide della scelta. La precedenza del conoscere
sul volere ha valore metafisico e non puramente funzionale: «Manifestum
est autem quod ratio quodammodo voluntatem praecedit, et ordinat actum
eius: inquantum scilicet voluntas in suum obiectum tendit secundum
ordinem rationis, eo quod vis apprehensiva appetitivae suum obiectum
repraesentat. Sic igitur ille actus quo voluntas tendit in aliquid quod
proponitur ut bonum, ex eo quod per rationem est ordinatum ad finem,
materialiter quidem est voluntatis, formaliter autem rationis». La
funzione della volontà sembra relegata al rango di semplice facoltà
esecutiva ed il suo contributo è detto appunto «materiale», mentre
quello della ragione è sostanziale e formale, come precisa ancora il
seguito del testo: «In huiusmodi autem substantiae actus materialiter se
habet ad ordinem qui imponitur a superiori potentia. Et ideo electio
substantialiter non est actus rationis, sed voluntatis: perficitur enim
electio in motu quodam animae ad bonum quod eligitur. Unde manifeste
actus est appetitivae potentiae» (22).
Come possa stare questa conclusione con la sua premessa, è arduo vederlo
ma di questo si dirà fra poco. Di qui non sorprende come nella scuola tomistica,
e di conseguenza nella polemica antitomistica, abbia avuto particolare
fortuna l'assioma giovanile di S. Tommaso: «Cum ad operationem nostram
tria concurrant, scilicet cognitio, appetitus, et ipsa operatio, tota
ratio libertatis ex modo cognitionis dependet. Appetitus enim
cognitionem sequitur, cum appetitus non sit nisi boni, quod sibi per vim
cognitivam proponitur». Chi decide è il giudizio dell'intelletto da
parte del soggetto: «Iudicium autem est in potestate iudicantis secundum
quod potest de suo iudiciò iudicare: de eo enim quod est in nostra
potestate, possumus iudicare. Iudicare autem de iudiciò suo est solius
rationis, quae super actum suum reflectitur, et cognoscit habitudines
rerum de quibus iudicat, et per quas iudicat: unde totius libertatis
radix est in ratione constituta. Unde, secundum quod alquid se habet ad
rationem, sic se habet ad liberum arbitrium. Ratio autem plene et
perfecte invenitur solum in homine: unde in eo solum liberum arbitrium
plenarie invenitur» (23).
Il paradigma ed il fondamento della libertà è perciò la ragione, la misura
dell'aspirazione è nella conoscenza così come il compimento della felicità
consiste per sé nella visione o conoscenza intuitiva adeguata del Sommo Bene.
3) La superiorità dell'intelletto sulla volontà. Questa tesi sembra uno
dei punti capitali del tomismo storico e non v'è dubbio ch'essa può
rivendicare l'appoggio esplicito dei testi tomistici dal principio alla
fine dell'attivita del Dottore Angelico. La formula davvero sconcertante,
almeno a prima vista, è che «simmpliciter intellectus est nobilior quam
voluntas», per la ragione anzitutto tutta aristotelica -e assai
discutibile, come presto diremo- che «...quanto aliquid est simplicius
et abstractius, tanto secundum se est nobilius et altius»; ma «objectum
intellectus est simplicius et magis absolutum quam obiectum voluntatis»
poiché «objectum intellectus est ipsa ratio boni appetibilis: bonum
autem appetibile, cuius ratio est in intellectu, est objectum voluntatis».
Quindi in sé considerati, cioè rispetto all'oggetto proprio, si deve
dire che «...intellectus eminentior invenitur». Solo secundum quid e
come rapporto ad altro e solo qualche volta (interdum) la volontà può
dirsi superiore all'intelletto ossia quando essa tende a Dio: «Unde
melior est amor Dei quam cognitio; e contrario autem melior est cognitio
rerum corporalium quam amor» (24).
La conseguenza diretta di siffatta
impostazione è l'altra tesi, intangibile nel tomismo, che l'essenza
della felicità consiste nell'unione con Dio mediante la conoscenza in
quanto la felicità consiste nel «...consequi fidem intelligibilem,
consequimur autem ipsum per hoc quod fit praesens nobis per actum
intellectus et tunc voluntas delectata conquiescit in fine iam adepto»
(25). Bellissimo quel
«voluntas delectata», ma allora resta poco convincente il procedimento
tomistico se è lasciato statico e formale.
Non convince anzitutto che la «ratio boni appetibilis» sia l'oggetto
esclusivo dell'intelletto, poiché nella deduzione dei trascendentali si
ha che come la ratio veri sorge per la relazione dell'ente
all'intelletto, così la ratio boni sorge per la relazione dell'ente
all'appetito intellettivo cioè alla volontà
(26).
Non convince neppure la ragione che l'intelletto conoscendo ci da la presenza
delle cose, poiché si tratta qui di una presenza intenzionale e non reale e
quindi di una semplice perfezione formale la quale è in sé indifferente poiché
-come lo stesso S. Tommaso riconosce- tale presenza non conferisce al
soggetto nessuna perfezione nell’ordine morale, rispetto al conseguimento
dell'ultimo fine ch'è quello che soprattutto conta. E allora?
B. - Dominio soggettivo esistenziale (reale) della volontà.
Diciamo subito che alla terminologia davvero minimista circa la
superiorita dell'intelletto sulla volontà del «simpliciter» e «secundum
quid» o «per accidens », S. Tommaso qualche volta sostituisce
rispettivamente quella di substantialiter e formaliter, e questo
è già -per l'uomo moderno- un discorso più comprensibile e confortante. Ma si
tratta, come sembra, di una formula vicina al primo periodo ed anche
questa -per strano che possa sembrare- è ispirata ad Aristotele. La
situazione a prima vista sembra capovolta poiché leggiàmo che la «...beatitudo
sicut objectum potentiae ... praecipue comparatur ad voluntatem» e la
ragione è -ovvia e giustissima- il fatto che «...nominat enim beatitudo
ultimum fines hominis, et summum bonum ipsius. Finis autem et bonum sunt
objectium voluntatis» e non, come (poi) si legge nella S. Theol., che la
ratio boni appetibilis (27)
è oggetto dell'intelletto. La formula allora qui diventa che «...beatitudo
originaliter et substantialiter consistit in actu intellectus; formaliter
autem et completive in actu volunntatis»
(28).
La ragione profonda però di quest'insistenza nell'attribuire
all'intelletto la preeminenza sulla volontà è di natura piùttosto
sistematica cioè il principio già ricordato del rapporto della potenza
all'oggetto. Infatti il primo movimento della potennza è verso l'oggetto
e non verso l'atto ch'è attinto soltanto nella riflessione: perciò «...impossibile
est ipsum actum voluntatis [desiderium, delectatio, amor] esse ultimum
finem voluntatis ... Prius est enim potentiam ferri in aliquod objectum,
quam quod feratur super actum suum: prius enim intelligitur actus
alicuius potentiae quam reflexio eius super actum illum»; e di
conseguenza «...actus voluntatis non potest esse primo volitum et per
consequens nec ultimus finis» (29).
Ma questa ragione forrmale vale
anche per l'intelletto. Quel che non si riesce a capire è perché
l'unione beatificante dello spirito creato con Dio debba essere
anzitutto quella che si compie nella sfera oggettiva dell'intelletto e
non piùttosto quella della sfera soggettiva tendenziale nella quale il
desiderium si compie nella delectatio e poi si sublima
nell'assimilazione suprema dell'amor, come ora si vedrà. Comunque,
questa posizione o terminologia intermedia fra l'agostinismo e
l'aristotelismo sembra sia stata poi decisamente abbandonata.
1) Superiorità dinamica della volontà quanto all'oggetto ch'è il bene.
Ciò che lascia perplessi ad una considerazione esistenziale dell'atto
umano, è l'affermazione tomistica che l'intelletto «muova» la volontà e
la muova per modum finis: «Aliquid dicitur movere dupliciter. Uno modo,
per modum finis; sicut dicitur quod finis movet efficientem. Et hoc modo
intellectus movet voluntatem: quia bonum intellectum est obiectum
voluntatis, et movet ipsam ut finis». Altrettanto sorprende che la
volontà sia ridotta a muovere in forma di agente estrinseco dove S.
Tommaso ricorre nientemeno che all'analogià dei movimenti materiali: «Alio
modo dicit aliquid movere per modum agentis; sicut alterans movet
alteratum, et impellens movet impulsum. Et hoc modo voluntas movet
intellectum, et omnes animae vires; ut Anselmus dicit»
(30). A questo
proposito gli stessi principi tomistici suggeriscono le seguenti
osservazioni. Anzitutto, dire che l'intelletto «muove» la volontà è una
semplice metafora: l'intelletto soltanto «presenta» l'oggetto appetibile
alla volontà e, benché esso oggetto -sul fondamento della perfezione
reale o supposta- sia appetibile, non è ancora appetito in se poiché
questo dipende dall'accettazione o meno della stessa volontà in virtù
della sua inclinazione. È propria della volontà la inclinatio in bonum
e della libertà il dominio su tale inclinazione: essa esercita questo
dominio, come stupendamente svolge S. Tommmaso, muovendo (cioè dirigendo
e perciò dominando) lo stesso intelletto pratico. L'intelletto
speculativo ha per oggetto l'ens ut verum ch'è la conformità in funzione
della presenza intenzionale del conoscere; la volontà ha per oggetto il
bonum ch'è l'ens ut perfectum et perfectivum
(31), perciò appetibile
come fine e che non è più oggetto di una sola facoltà ma diventa oggetto
dell'intera persona. Il dinamismo della persona nasce da questa
inclinatio originaria della facoltà appetitiva, che si partecipa (a
detta dello stesso S. Tommaso) a tutto il settore intenzionale dello
spirito: è la volontà allora, e non l'intelletto, che costituisce
l’attività più profonda dello spirito
(32). Il ridurre pertanto la
mozione della volontà ad un «...movere per modum agentis» di grado
inferiore a quella dell'intelletto è preferire il rapporto formale a
quello reale, la situazione statica a quella dinamica ed è un assimilare
la dinamica dello spirito a quella del mondo materiale come fa
espressamente S. Tommaso. Mentre la vita dello spirito presenta, proprio
secondo gli stessi principi tomistici, una dinamica capovolta . È il
fine ed è il bene che domina (e deve dominare) la vita dello spirito: il
fondamento, d'accordo, è l'apprensione dello ens-verum, ma la dinamica
concreta è sotto l'egida della volontà e anche per questo si dice che
finis è primum in intentione e
ultimum in executione et assecutione.
2) Superiorità ontologica della volontà quanto all'oggetto ch'è Dio come
ultimo fine. Questo è un punto pacifico, come ora si è visto, nella
posizione tomistica e sorprende che S. Tommaso l'abbia lasciato ai
margini e ammesso quasi di passaggio e come «recitando», mentre esso
attinge in realtà l'intera strutturazione del soggetto spirituale. Si
potrebbe discutere se per le cose finite, anche sul piano oggettivo,
l'intelletto sia effettivamente da considerare superiore alla volontà
precisamente per il fatto che riceve in sé la «ratio rei intellectae»
(33): perché mai la
res materialis nella sua effettualita reale, a cui
si volge direttamente la volontà, è da considerare inferiore alla sua
presentazione formale astratta nell'intelligenza? Nell'intellettualismo
greco che preferisce l'universale astratto al singolare concreto, si puo
anche capire la posizione di privilegio riservata all'intelletto: anche
per questo intellettualismo il mondo classico -e lo stesso Aristotele,
com'è noto (34)-
ha difeso la schiavitù come condizione naturale di una
certa frazione dell'umanità. Questo è inammissibile, anche sul solo
piano speculativo, dopo l'avvento del Cristianesimo il quale insegna che
la creazione è tutta opera di libertà e di amore, che attinge il fondo
stesso della materia e quindi gli individui singolari come ammette
espressamente anche S. Tommaso. Ed è ancora S. Tommaso il quale,
sviluppando in questa linea creazionistica la dottrina aristotelica
della «conversio ad phantasmata», riconosce l'indispensabilita della
conoscenza dei singolari nei quali soltanto esiste realmente la natura
universale: «Unde natura lapidis, vel cuiuscumque materialis rei,
cognosci non potest complete et vere nisi secundum quod cognoscitur ut
in particulari existens. Particulare autem apprehendimus per sensum et
imaginationem. Et ideo necesse est ad hoc quod intellectus actu
intelligat suum obiectum proprium, quod convertat se ad phantasmata, ut
speculetur naturam universalem in particulari existentem» (S. Th.
I, q.
84, a. 7). Ora, se l'intelletto stesso, per la sua funzione oggettivante,
ha bisogno di rivolgersi (quasi per quamdam reflexionem) ai singolari,
come puo dirsi superiore alla volontà la quale direttamente...
inclinatur ad res ipsas nella loro realtà immediata carica di tutti i
valori esistenziali? L'osservazione ha poi la conferma dall'ammissione
di S. Tommaso che, conosciuta l'esistenza di Dio, la volontà amando Dio
va direttamente a Dio: «In omnibus potentiis ad invicem ordinatis hoc
est necessarium ut ubi terminatur actus prioris potentiae, incipiat
actus secundae: unde cum voluntas praesupponat intellectum, voluntas
fertur in illud in quod intellectus terminatur. Intellectus autem
quamvis Deum in statu vitae non nisi per effectus cognoscat, tamen eius
operatio in ipsum Deum terminatur secundum quantulamcumque cognitionem
quam de ipso accipit; et ideo affectus non indiget at hoc quod referatur
in Deum quod redeat in illa media; sed potest statim in ipsum Deum ferri,
in quem intellectus devenit» (In IV Sent., d. 49, q. II, a.7 Sol., ad
7). È questa la superiorità esistenziale della volontà sull'intelletto
da cui segue che l'amore di Dio è migliore della conoscenza di Dio. Ma
Dio non è forse il nostro Sommo Bene? E non basta allora questa
superiorita della volontà su questo punto, per trascinare al livello
della libertà tutta la dignita della persona? Sta bene quindi, od almeno
passi, che l'intelletto sia detto prior, non però superior sulla volontà
e questo in virtù degli stessi principi tomistici.
3) Superiorità «metafisica» della volontà sull'intelletto: superiorità
della «libertas quoad exercitium» sulla «libertas quoad specificationem».
L'itinerario è complesso ed è bene percorrerlo nei suoi punti principali:
si tratta di trovare il preciso «locus metaphysicus» della libertà come
valenza ovvero contingenza positiva della vita spirituale -ch'è detta
oggi lo «stare nell'aperto» (Offenheit, Offenbarkeit)- come emergenza
sulla semplice spontaneità naturale che ha la stessa volontà verso il
bene in generale. L'ultimo punto di arrivo delle riflesssioni
dell'Angelico sembra la mirabile Q. De Malo (35).
a) Netta è quindi la distinzione della mozione che si può compiere nella
volontà umana, che è duplice: «ex parte subiecti» cioè mediante la
stessa volontà, ed «ex parte objecti» cioè per l'intervento
dell'intelletto che presenta l'oggetto. La formula è conosciuta poiché è
diventata classica. Dopo aver precisato, sempre in ossequio ad
Aristotele, che nell'atto libero «...intellectus est primum principiùm
in genere causae fonnalis» perché il suo oggetto è lo ens et verum e che
«objectum voluntatis est primum principiùm in genere causae finalis, nam
eius obiectum est bonum» (36)
-passa all'enunciazione ch'io reputo la
più completa e profonda della dialettica della libertà umana:- I)
Quantum ad determinationem actus, cioè «ex parte objecti», la mozione
parte ovviamente dall'apprensione dell'intelletto (ex parte obiecti
specificantis actum, primum principiùm motionis est ex intellectu) e
tale mozione diventa necessitante soltanto per l'aspirazione alla
felicità in generale di cui l'uomo non può fare a meno quando s'impegna
all'azione. – II. Quantum ad exercitium actus, cioè «ex parte subjecti»
che è propriamente l’attività della persona come tale, la mozione parte
dalla volontà in quanto -è questa l'ultima ragione metafisica- essa è la
«facultas ipsius finis principalis», ch'è appunto il bene. La tesi ha
due momenti, si badi bene: anzitutto «...hoc modo voluntas movet seipsam»,
poi muove «...et omnes alias potentias»- a cominnciare dall'intelletto:
«intelligo enim quia volo et utar omnibus potentiis quia volo»
(37). È qui il nodo
principale del problema ed anche, a nostro avviso, il progresso decisivo
di S. Tommaso su Aristotele nell'approfondimento della dialettica della libertà.
b) Questa dialettica consta di due momenti. Il primo è che «...quantum
ad exercitium actus, voluntas movetur a seipsa» - come I'intelletto,
conosciuti i primi principi, si muove all'acquisto della scienza, così
la volontà passa dalla volizione del fine all'uso dei mezzi per
conseguirlo: «Quantum ergo ad exercitium actus, primo quidem manifestum
est quod voluntas movetur a seipsa, sicut movet alias potentias, ita et
seipsam movet ... ita per hoc quod homo vult aliquid in actu; sicut per
hoc quod vult sanitatem, movet se ad volendum sumere potionem»
(38). La volitio finis è
perciò l'atto fondante per l'esercizio della libertà: vedremo fra poco
se essa è anche l'atto fondamentale: «Voluntas in quantum vult finem,
reducit se in actum quantum ad ea quae sunt ad finem»
(39). E questo sembra ovvio.
Ma il progresso che ora ci sembra di scorgere nel testo tomista è
l'insistenza nel dare rilievo all'atto della volontá così che lo
objectum apprehensum è detto muovere «ab exteriori» a differenza del ...
«principium interius quod producit ipsum voluntatis actum»
(40) così che
la volontà è sempre in grado di dominare non solo le passioni ma lo
stesso intelletto traviato dall'errore e dalle passioni. c'è quindi
sempre un punto di forza intatto di libertà al centro della volontà,
ch'è sottratto alla rigida «consecutio intentionalis» della volontà da
parte dell'intelletto, di cui essa conserva la capacità, che costituisce
perciò il nucleo profondo della responsabilità: «Applicare autem
intentionem ad aliquid vel non applicare, in potestate voluntatis
existit. Unde in potestate voluntatis est quod ligamen rationis excludat»
(De Malo, q. III, a. 10). È vero pertanto che S. Tommaso conduce questo
discorso sulla libertà in stretto parallelismo con la concatenazione
che si ha nell'intelletto sia nel passaggio dalla conoscenza dei primi
principi alla formazione della scienza, sia nel passaggio dalla
coscienza dell'oggetto all'autocoscienza (come rifiessione sul conoscere
in atto che si attua soltanto mediante l'oggetto). Per S. Tommaso però
la volontà ha in mano il proprio atto nel modo più categorico: «Voluntas
domina est sui actus et in ipsa est velle et non velle. Quod non esset, si non
haberet in potestate movere seipsam ad volendum. Ergo ipsa movet seipsam» (S.
Th. I, q. 9, a. 3; Sed contra). Queste considerazioni lasciano quindi un ampio
margine di duttilità che tempera nel fondo il rigido schema intellettualistico
che la scuola tomistica aveva dato alla dottrina dell'Angelico Dottore la cui
terminologia è assai varia e
complessa ed in continuo approfondimento di quello che ci piace chiamare
il nucleo originario della libertà radicale.
C. - La struttura trascendentale (esistenziale) della libertà radicale.
Se confrontiamo la posizione di S. Tommaso sulla libertà con quella dei
suoi predecessori, teologi e filosofi, la prima impressione è certamente
che le sue preferenze vanno per la soluzione dei filosofi ossia del
rigido condizionamento dell'attività volontaria e libera da parte del
conoscere. Ma è soltanto un'impressione che S. Tommaso stesso s'incarica
di dissipare nel modo più esplicito quando afferma che la volontà è
facoltà della persona come tale ossia che ad essa compete non solo -e
sarebbbe già decisivo- di muovere tutte le facoltà a cominciare
dall'intelletto, ma di muovere se stessa secondo la doppia (o triplice)
valenza, che non ha senso nella sfera dell'intelletto, di velle, nolle e
non velle -una valenza la quale, anche nelle due forme di espressione
negative (nolle e non velle) ha significato positivo ossia indica
l'esercizio positivo della libertà come rifiuto ad agire ed a scegliere.
Si può quindi parlare di un'emergenza positiva della volontà nella sfera
dinamica della strutturazione esistenziale della persona nel senso
tomistico di «causa sui» (41).
Quest'emergenza positiva è nella natura
della volontà la quale, come si è accennato (e l'osservazione indica già
il gran passo fatto oltre l'intellettualismo greco), sta agli antipodi
della potenzialita della materia prima: «Ratio [= nulla potentia educit
se in actum] procedit de potentia pasiva ad esse, qualis est materia
prima, quae non perducit se ad actum; non autem locum habet de potentia
operativa, qualis est liberum arbitrium, quae ad actum ducitur per
obiectum» (De Ver., q. XXIV, a. 4 ad 15). Quest'originalità
trascendentale della libertà splende proprio nella
definizione del libero arbitrio ch'è «libere judicare» (De Ver., q. XXIV,
a. 4), la quale è un'espressione contraddittoria sul piano del conoscere
come tale ma ch'è la pura essenza della libertà sul piano esistenziale.
S. Tommaso infatti precisa: «Potentia qua libere iudicamus non
intelligitur illa qua iudicamus simpliciter, quod est rationis; sed quae
facit libertatem in iudicando, quod est voluntatis. Unde liberum
arbitrium est ipsa voluntas: nominat enim eam non absolute sed in ordine
ad aliquem actum eius qui est eligere»
(42). Si può allora parlare di
una «autodeterminazione originaria» (ursprüngliche Selbstbestimmung)
della volontà nell'esercizio della libertà?
1) L'autodeterminazione originaria della volontà. La risposta
affermativa non può lasciare dubbi, dopo quanto si è detto
sull'emergenza trascendentale della libertas exercitii la quale
rivendica, dentro un «certo» condizionamento da parte della sfera
razionale, l'indipendenza della volontà nella sfera tendenziale. S.
Tommaso con espressione felice parla d'immediatezza che qui indica
originarietà, nel senso moderno: «Quamvis [nell'atto di libertà]
judicium sit rationis, tamen libertas iudicandi est voluntatis immediate
(43).
Nella terminologia di S. Tommaso la voluntas ut natura (thélesis),
la quale ha per oggetto il bonum in communi ossia la felicità in
generale, può dirsi (come dev'essere ogni facoltà) «determinata ad unum»:
ma questo riguarda solo la determinazione dell'oggetto. Quanto alla
volontà come facoltà di scelta (boúlesis) sia rispetto all'oggetto come
all'atto, si deve riconoscere che «voluntas est domina suorum actuum»
nel senso ovvio che «...omne quod voluntas vult, potest velle et non
velle» (De Ver., q. XXII, a. 5; Sed contra: Praeterea 5 e ad 5).
L'emergenza della volontà sulla ragione è quindi costitutiva per
l'attuarsi dell'atto libero: «Non enim voluntas de necessitate sequitur
rationem» (De Ver., q. XXII, a. 15). Ma cos'è che forma e regge
quest’emergenza trascendentale della volontà? È la sua inclinatio
necessaria ad ultimum finem, come prima risposta, così che «...voluntas
-a differenza dell'intelletto- ipsam inclinationem hominis nominat»
(44)
al bene ed alla felicità. È all'interno di quest'inclinazione allora che
si attua la libertà. Infatti mentre l'intero complesso della natura
inferiore, compreso il regno animale, si agita e muove secondo scopi
prestabiliti e quindi mediante inclinazioni determinate in modo univoco,
non così per l'uomo ed il soggetto spirituale come tale ch'è fatto
partecipe della autonomia divina. Ecco il testo stupendo: «Hoc autem ad
divinam dignitatem pertinet ut omnia moveat et inclinet et dirigat, ipse
a nullo alio motus vel inclinatus vel directus. Unde, quanto aliqua
natura est Dei vicinior, tanto minus ab alio inclinatur et magis nata
est seipsam inclinare». Quindi «...natura rationalis quae est Deo
vicinissima, non solum habet inclinationem in aliquid sicut habent
inanimata, nec solum movens hanc inclinationem quasi aliunde eis
determinatam, sicut natura sensibilis; sed ultra hoc habet in potestate
ipsam inclinationem, ut non sit ei necessarium inclinari ad appetibile
apprehennsum, sed possit inclinari vel non inclinari. Et sic ipsa
inclinatio non determinatur ei ab alio, sed a seipsa» (De Ver., q.
XXII, a. 4). È vero che la ragione obiettiva di questo dominio della
volontà sull'inclinazione è riferito alla «apprehensio intellectivae
partis», ma la spinta attiva originaria è solo della volontà dentro la
spinta originaria alla felicità.
2) L'autoappartenenza originaria della libertà alla volontà.
Nell'aristotelismo e nel tomismo tradizionale la libertà era
più una funzione della ragione sulla volontà che il dominio della volontà
sulla ragione, secondo l'espressione plastica già riportata: «Tota ratio
libertatis ex modo cognitionis dependet... Totius libertatis radix est
in ratione constituta» (De Ver., q. XXIV, a. 2). Checché sia del
rapporto sul piano formale, è certo -come si è accennato e come
cercheremo di completare- che sul piano esistenziale la formula va
esattamente rovesciata. Lo stesso San Tommaso, parlando del rapporto di
intelletto e volontà, sembra temperare il razionalismo spinto di quella
formula. Considerata rispetto all'oggetto, la volontà è profondamente
distinta dall'intelletto come sie visto. Ma se consideriamo la volontà
rispetto all'essenza dell'anima in cui ha la sua radice, allora la
volontà s'incontra con l'intelletto ch'è parimenti una facoltà
spirituale: «Et sic quandoque intellectus vel ratio sumitur prout
includit in se utrumque; et sic dicitur quod voluntas est in ratione. Et
secundum hoc rationale includens intellectum et voluntatem dividitur
contra irascibile et concupiscibile» (De Ver., q. XXII, a. 10).
L'emergenza dinamica della volontà tende allora, anche se sempre non
riesce a chiuderla perfettamente a causa delle passsioni e degli errori,
a formare un circolo in se stessa ch'è rispetttivamente il circolo del
vizio e della virtù (grazia) su questa terra, della riprovazione e della
salvezza (gloria) nell'altra vita. Forse è in questa analisi della
soluzione estrema della libertà che S. Tommaso coglie il momento
profondo dell'appartenenza originaria della libertà alla volontà:
«Dicendum quod peccatum libero arbitrio adveniens, non adimit aliquid
essentialium, quia sic species liberi arbitrii non remaneret; sed per
peccatum aliiquid additur, scilicet unitio quaedam liberi arbitrii cum
fine perverso, quae ei quodammodo naturalis efficitur. Et ex hoc
necessitatem habet sicut et alia quae sunt libero arbitrio naturalia»
(45).
È per questa appartenenza o presenza naturale della Iibertà a se
stessa che la volontà può resistere alle passioni ed inclinazioni
cattive ed è perciò possibile al peccatore evitare il peccato. S.
Tommaso perciò corregge il noto esempio di San Agostino della gamba
claudicante: «Exemplum Augustini de curvitate, quantum ad aliquid non
est simile; quia scilicet non est in potestate tibiae ut utatur
curvitate vel non utatur, ideo oportet omnem motum tibiae curvae
claudicationem esse; liberum autem arbitrium potest uti vel non uti sua
curvitate: et ideo non oportet quod in quolibet actu suo peccet, sed
potest quandoque vitare peccatum» (46).
Il significato perciò di siffatta appartenenza della libertà alla
volontà va presa in senso positivo e totale lungo l'arco dell'intero
dispiegamento della soggettività dall'inizio alla fine: «Finem primo
apprehendit intellectus quam voluntas: tamen motus ad finem incipit in
voluntate, Et ideo voluntati debetur id quod ultimo consequitur
consecutionem finis, scilicet delectatio vel fruitio» (S. Th. I-II,
q.3, a.4 ad 3). E la ragione di quest'appartenenza è intesa da S.
Tommaso -con espressione degna degli ardimenti di un Fichte- come
un'immanenza di «presenza della potenza della volontà sempre in atto» da
cui può prendere il via per l'azione: «Potentia voluntatis semper actu
est sibi praesens: sed actus voluntatis, quo vult finem aliquem, non
semper est in ipsa voluntate. Per hunc autem movet seipsam. Unde non
sequitur quod semper seipsam moveat» (S. Th. I-II, q. 9, a. 3 ad 2).
E questa è la sfera della riflessione in cui la volontà ottiene la palma
sulla ragione: «Ratio autem et voluntas sunt quaedam potentiae
operativae ad invicem ordinatae; et absolute considerando, ratio prior
est, quamvis per reflexionem efficiatur volutas prior et superior, in
quantum movet rationem» (De Ver., q. XXII, a. 13)
(47). C'è perciò
anzitutto una circulatio scambievole quasi una specie di osmosi
trascendentale fra intelletto e volontà per abbracciare tutta la realtà
spirituale dell'anima. S. Tommaso, con una terminologia che s'avvicina
ancora a Kierkegaard, parla qui di una riflessione doppia con uno stile
di pari potenza: «Potentiis autem animae superioribus, ex hoc quod
immateriales sunt, competit quod refiectantur super seipsas; unde tam
voluntas quam intellectus reflectuntur super se, et unum super alterum,
et super essentiam animae, et super omnes eius vires. Intellectus enim
intelligit se, et voluntatem, et essentiam animae, et omnes animae
vires; et similiter voluntas vult se velle, et intellectum intelligere,
et vult essentiam animae,et sic de aliis» (48).
Cosa avrà voluto intendere S. Tommaso con l'audace espressione che la volontà
nella rifiessione non solo «...vult se velle et intellectum intelligere»,
ma anche «...et vult essentiam suam»? È forse l'abbracciò totale col quale
l'uomo giunge, come dirà poi Taulero, al fundus animae? Quel ch'è certo
è che quando S. Tommaso si abbandona al suo genio speculativo rommpe i
limiti della cultura del suo tempo e, soprattutto dello stesso paradigma
aristotelico dacui sembra spesso soggiogato quando vuole proporre le
formule conclusive.
3) L'oscuramento della dinamica esistenziale della «electio».
Semplificando anche noi le formule in corrispondenza del titolo di
questa ricerca possiamo concludere affermando (cioè ripetendo)
esplicitamente il carattere di verticalità della volontà rispetto al
Bene Sommo ed al fine ultimo e quello di orizzonntalità rispetto ai beni
particolari ed ai mezzi richiesti per conseguire il fine stesso
(49). Ma
con questo si deve riconoscere che tutto il problema cruciale della
libertà resta completamente in aria: cioè il problema della «scelta». Lo
schema dell'azione volontaria si articola per S. Tommaso in tre momenti:
velle, intendere, eligere... che riguardano rispettivamente il bonum in
communi, il fine (ultimo) in concreto ed i mezzi per conseguire questo
fine. La formula è che la volontà vuole necessariamente -nel senso sopra
indicato- la felicità come tale ed il fine ultimo che con essa coincide
realmente, mentre resta libera circa l'uso dei mezzi (cf. De Ver., q.
XXII, aa. 6 e 15). Questa sembra la posizione di Aristotele legato ad una
visione del mondo dominata dal fato: ma essa è anche l'ultima parola di
S. Tommaso circa il dramma più acuto e sempre attuale della libertà
umana? (50).
È il paralelismo diretto della volontà con la sfera conoscitiva che crea
il principale disagio: «Cum electio sit quoddam iudicium de agendis vel
iudicium consequatur, de hoc potest esse electio, quod sub iudiciò
nostro cadit. Iudicium autem in agendis sumitur ex fine, sicut de
conclusionibus ex principiis: unde, sicut de primis principiis non
iudicamus ea examinando, sed naturaliter eis assentimus, et secundum ea
omnia alia examinamus, ita et in appetibilibus de fine ultimo non
iudicamus iudiciò discussionis vel examinationis, sed naturaliter
approbamus; propter quod de eo non est electio, sed voluntas. Habemus
ergo respectu eius liberam voluntatem, cum necessitas naturalis
inclinationis libertati non repugnet, secundum Augustinum, V De Civ.
Dei, non autem liberum iudicium, proprie loquendo, cum non cadat sub
electione» (De Ver., q. XXIV, a. 1 ad 20). Non si vede, in questo
rigoroso parallelismo come si possa parlare di «libera voluntas»
rispetto al fine (in communi) «...quem naturaliter approbamus» e quindi
anche «... naturaliter appetimus». Invece se fra la intentio naturale
(necessaria) del finis in communi e la electio mediorum si pone la
electio fins in concreto, secondo l'alternativa di finito (creatura-io)
e Infinito, qui si può e si deve parlare di libera voluntas: è l'atto
fondamentale della libertà esistenziale. A questo modo si può e si deve
allora ammettere una libera voluntas anche rispetto al fine, e questa
libertà non si esercita «naturaliter» ma mediante il processo di
concilium-electio: quindi prima della scelta del fine ultimo in concreto
della nostra vita, il tendere al fine ultimo in astratto non pone alcun
problema -dobbiamo cercare, discutere, esaminare... cioè riflettere per
poter decidere sul 'fine concreto dell'esistenza e quindi scegliere.
Altrimenti la «libera voluntas» del fine ultimo a cui, nel testo citato,
conviene la necessitas naturalis, non è dissimile dalla libertà
spinoziana e non si capisce più cosa significhi, rispetto al fine
concreto, il liberum iudicium. Invece nella prospettiva esistenziale lo
iudicium è libero perché rimane sempre sotto la volontà che muove la
ragione alla collatio: «Iudicium cui attribuitur libertas, est iudicium
electionis; non autem iudicium quo sententiat homo de conclusionibus in
scientiis speculativis; nam ipsa electio est quasi quaedam scientia de
praeconsiliatis» (De Ver., q. XXIV, a. 1 ad 17).
La filosofia moderna, come si è detto al principio, attribuisce -come fa
S. Tommaso stesso- alla soggettività della libertà la capacita di
ec-sistere ossia di porsi fuori nella trascendenza. Ma se questo
situarsi nella trascendenza ch'è la scelta, viene limitato ai mezzi e la
scelta del fine è garantita dalla sola intentio formale, non ha più
senso la lotta della libertà per la costituzione del soggetto morale. S.
Tommaso sembra riposare tranquillo nella dialettica formale del
«passaggio rettilineo» dalla intentio (volitio) finis alla electio
mediorum, tramite il consilium... e l'Angelico ha fatto una mirabile
analisi dell'intreccciò fra gli atti dell'intelletto e quelli della
volontà i quali hanno da portare al conseguimento e godimento finale
della beatitudine. Il principio generale è il seguente: «Per hac quod
homo aliquid vult in actu [= il fine] movet se ad volendum aliquid aliud
in actu [= i mezzi al fine]: sicut per hoc quod vult sanitatem, movet se
ad volendum sumere potionem... Sic ergo voluntatem accipiendi potionem
praecedit consilium. Quod quidem procedit ex voluntate volentis
consiliari» (De Malo, q. VI, art. un.). Questo è ormai chiaro, dopo
quanto è stato detto circa la dinamica della libertas quantum ad
exercitium actus. Ma il dramma della libertà è così nel clima cristiano
1'esito della salvezza o della perdizione, sembra qui appena sfiorato.
È vero che S. Tommaso taglia corto sull'incertezza di Aristotele se la
scelta sia un atto dell'intelletto oppure della volontà
(51) ed afferma
che la scelta «substantialiter non est actus rationis sed voluntatis»
nel senso che «materialiter quidem est [actus] voluntatis, formaliter
autem rationis» (52).
L'Angelico sembra mantenere lo schema che a) quanto all'atto la «electio»
abbraccia universalmente il «velle et non velle» (libertas exercitii),
ma b) quanto all'oggetto abbraccia solo gli oggetti «...quae sunt ad finem
et non [est] ipsius finis». Sembra che per S. Tommaso il cardine della
vita morale sia l'aspirazione naturale (naturalis inclinatio)
cioè innata alla felicità in generale la quale
diventa così il primo principio dell'agire: il fine ultimo perciò non è
oggetto di scelta, ma solo di aspirazione. La scelta perciò riguarda
soltanto «...ea quae sunt ad finem», poiché tali oggetti (beni e mezzi
particolari) «...non habent determinationem respectu finis ut, remoto
aliquo eorum, removeatur finis»: così c'è spazio per la scelta. Il fine
perciò è fuori causa e s'impone per se stesso. Si ha quindi
l'impressione che l'analisi tomistica dell'atto umano, così profonda
sotto l'aspetto metafisico e ricca nei particolari psicologici, sorvoli
quasi l'impostazione decisiva del momento esistenziale che consiste
precisamente nella scelta o determinazione personale che ognuno ha e
deve fare del fine. E la ragione è ovvia: tutti aspirano alla felicità
in generale allo stesso modo ed in questo l'uno non si distingue
dall'altro. Ogni uomo poi si fa per conto suo un giudizio della felicità
che preferisce e fa la sua scelta di conseguenza: è questa la scelta
esistenziale del fine che qualifica ontologicamente e moralmente il
soggetto. c'è infatti chi sceglie per scopo della sua vita, e quindi
come oggetto della sua felicità, la ricchezza, chi i piaceri, chi la
carriera o gloria umana, chi la cultura... e chi la conformità con la
volontà di Dio e la vita eterna -ossia, secondo la terminologia
kierkegaardiana, la scelta esistenziale pone la Diremtion fra l'oggetto
(bene) finito ed Infinito. Bisogna perciò ammettere una electio finis
ch'è la scelta del proprio ideale o della propria vocazione in questa
vita: una scelta sempre riformabile secondo tutto l'ambito della propria
libertà. È la responsabilità (libertà) di questa scelta concreta del
fine che attua la libertà personale e costituisce in atto la sua
moralità.
D. - La scelta esistenziale del fine. Cerchiamo allora di fare l'ultimo
passo per l'incontro della libertà verticale ed orizzontale. Per questo
fine concreto, ch'è l'oggetto reale esistenziale di siffatta scelta,
vale infatti il principio; «In appetibilibus autem finis est fundamentum
et principiùm eorum quae sunt ad finem; cum quae sunt propter finem non
appetantur nisi ratione finis» (De Ver., q. XXII, a. 5). E si deve dire,
a riconoscimento della sua perspicacia, che lo stesso S. Tommaso ha un
qualche sentore che la situazione va messa in questi termini, p.es.
quando scrive: «Voluntas vult naturaliter bonum, sed non determinate hoc
bonum vel illud; sicut visus naturaliter videt colorem, sed non hunc vel
illum determinate. Et propter hoc, quidquid vult, vult sub ratione boni;
non tamen oportet quod semper hoc vel illud bonum velit» (De Ver., q.
XXIII, a. 6 ad 5). Ed in forma positiva afferma: «Finis est in quem
ordinantur ea quae sunt ad finem. Cum enim voluntas moveatur in suum
obiectum sibi propositum a ratione, diversimode movetur, secundum quod
diversimode sibi proponitur. Unde, cum ratio proponit sibi aliquid ut
absolute bonum, voluntas movetur in illud absolute; el hoc est velle.
Cum autem proponit sibi aliquid sub ratione boni, ad quod alia
ordinentur ut ad finem, tunc tendit in illud cum quodam ordine, qui
invenitur in actu voluntatis, non secundum propriam naturam, sed
secundum exigentiam rationis» (53).
Tuttto questo presuppone la realtà di una scelta concreta di un fine
concreto della propria vita.
l) Scelta esistenziale del fine e determinazione morale. È mediante
questa scelta del fine ultimo in concreto che si costituisce la moralità
fondamentale dell'atto umano e che la volontà umana si dice buona o
cattiva, ed è mediante lo sviluppo di questa scelta che si viene
formando e qualificando la personalità morale dell'uomo nella sua
integralità. A quest'uomo, impegnato nella scelta radicale in concreto
del fine, si applica allora la dichiarazione, mirabile per semplicitá e
profonditá, purché si sottintenda la scelta concreta del fine ultimo:
«Quilibet habens voluntatem, dicitur bonus inquantum habet bonam
voluntatem: quia per voluntatem utimur omnibus quae in nobis sunt. Unde
non dicitur bonus homo, qui habet bonum intellectum: sed qui habet bonam
voluntatem. Voluntas autem respicit finem ut obiectum proprium» (S. Th.
1, q. 5, a.4 ad 3). Ma si dice buona o catttiva la volontà che fa una
scelta libera del fine ch'è in concreto buono o cattivo in cui la
volontà sceglie la propria felicità, come riconosce lo stesso S.
Tommaso: «Felicitàtem indeterminate et in universali omnis rationalis
mens naturaliter appetit,et circa hoc deficere non potest; sed in
particulari non est determinatus motus voluntatis creaturae ad
quaerendam felicitatem in hoc vel illo. Et sic in appetendo felicitàtem
aliquis peccare potest, si eam quaerat ubi quaerere non debet, sicut qui
quaerit in voluptatibus felicitàtem; et ita est respectu omnium bonorum»
(54). La realtà del peccato
e gli orrori della libertà umana di cui è
insanguinata la storia sono lì a mostrare che la crisi della scelta, non
si agita e risolve nell'ambito dei mezzi ma nella sfera dei fini
concreti a cui l'uomo si vota per la vita e per la morte.
Il testo a mia conoscenza più completo ed esplicito è nel giovanile
Commento alle Sentenze: «Bonum, quod est obiectum voluntatis, est in
rebus, ut dicit Philosophus in VI Metaph. et ideo oportet quod motus
voluntatis terminetur ad rem extra animam existentem. Quamvis autem res,
prout est in anima, possit considerari secundum rationem communem
praetermissa ratione particulari; res tamen extra animam non potest esse
secundum communem rationem nisi cum additione propriae rationis: et ideo
oportet quantumcumque voluntas feratur in bonum, quod feratur in aliquod
bonum determinatum: et similiter quantumcumque feratur in summum bonum
huius, vel illius rationis. Quamvis autem ex naturali inclinatione
voluntas habeat ut in beatitudinem feratur secundum communem rationem,
tamen quod feratur in beatitudinem talem, vel talem hoc non est ex
inclinatione naturae, sed per discretionem rationis, quae adinvenit in
hoc, vel in illo summum bonum hominis constare: et ideo quandocumque
aliquis beatitudinem appetit, actualiter coniungitur ibi appetitus
naturalis, et appetitus rationalis: et ex parte appetitus naturalis
semper est ibi rectitudo; sed ex parte appetitus rationalis quandoque
est ibi rectitudo, quando scilicet appetitur ibi beatitudo ubi vere est;
quandoque autem perversitas, quando appetitur ubi vere nonest: et sic in
appetitu beatitudinis potest aliquis vel mereri adiuncta gratia, vel
demereri, secundum quod eius appetitus est rectus, vel perversus» (In IV
Sent., d. 49, q. I, a. 3, Sol. III). La «discretio rationis quae
adinvenit in hoc vel in illo summum bonum» suppone la mozione della
volontà la quale comporta un giudizio di scelta -la scelta fondamentale
sul piano esistenziale- secondo il principio: «...de hoc potest esse,
quod sub iudiciò nostro cadit» (De Ver. q. XXIV, a. l ad 20). Quindi
mentre l'appetitus naturalis della volontà tende al bonum in communi
spontaneamente, l'apppetitus rationalis fa la scelta precisa del bene in
cui porre la propria felicità, cioè «sceglie» fra i vari beni possibili
offerti alla libertà, quello «preferito» dalla bontà o malizia del quale
dipende la bontà o malizia (il merito o la colpa) della volontà stessa
(ibid.: ad 2).
Il fine concreto della vita è ciò che anzitutto e soprattutto cade sotto
il nostro giudizio di scelta: perciò dipende dalla volontà. Quindi
quell'«adinvenit» puo trarre in inganno come fosse un semplice atto
della sfera conoscitiva, mentre in realtà esso dipende dalla mozione
della volontà. Più felice ci sembra l'espressione che S. Tommaso usa un
po' più avanti fra voluntas naturalis (del fine in communi) e
deliberativa (del fine concreto), in un contesto (la volontà nei
dannati) che mette a fuoco egregiàmente la nostra questione: «In
damnatis potest duplex volunntas considerari, scilicet voluntas
deliberativa, et voluntas naturalis. Naturalis quidem non est eis ex
ipsis, sed ex auctore naturae, qui in natura hanc inclinationem posuit,
quae naturalis voluntas dicitur: unde cum natura in eis remaneat,
secundum hoc bona poterit in eis esse voluntas naturalis. Sed voluntas
deliberativa est eis ex seipsis, secundum quod in potestate eorum est
inclinari per affectum ad hoc, vel illud; et talis voluntas in eis est
solum mala: et hoc ideo, quia sunt perfecte aversi afine ultimo rectae
voluntatis: nec aliqua voluntas potest esse bona, nisi per ordinem ad
finem praedictum: unde etiam si aliquod bonum velint, non tamen bene
bonum volunt illud, ut ex hoc voluntas eorum bona dici possit» (In IV
Sent., d. 50, q. II, a. 1, Sol. 1).
Lo ammette ancora implicitamente S. Tommaso quando ricerca negli uomini
e negli angeli l'origine precisamente della cattiva volontà e perciò del
peccato. Per l'uomo nel primo movimento della volontà, ch'è la intentio
finis in communi, non c'è possibilità di errore o peccato: «Cum voluntas
tendat in bonum intellectum naturaliter, sicut in proprium obiectum et
finem, impossibile est quod aliqua intellectualis substantia malam
secunndum naturam habeat voluntatem, nisi intellectus eius naturaliter
erret circa iudicium boni... Impossibile est igitur quod aliquis
intellectus sit qui naturaliter in iudiciò veri decipiatur. Non igitur
possibile est quod sit aliqua substantia intellectualis habens
naturaliter malam voluntatem» (C. Gent., III, c. 107, Praeterea).
Altrettanto esplicita è l'ammissione per spiegare il peccato nell'angelo
decaduto: «Licet enim naturalis inclinatio voluntatis insit unicuique
volenti ad volendum et amandum sui ipsius perrfectionem, ita quod
contrarium huius velle non possit; non tamen sic est ei inditum
naturaliter ut ita ordinet suam perfectionem in alium finem quod ab eo
deficere non possit: cum finis superior non sit suae naturae proprius,
sed superioris naturae. Relinquitur igitur suo arbitrio quod propriam
perfectionem in superiorem ordinet finem» (C. Gent., III, c. 109). È in
gioco qui la prevalenza del bonum proprium soggettivo sul bene supremo
ch'è Dio stesso e su ciò ch'è voluto da Dio: ecco che la creatura può
derogare, può volere un altro fine ossia il «suo», quello del suo
orgoglio, della sua passione, del suo capricciò... -è questa la scelta
esistenziale in cui sono caduti il primo uomo, gli angeli ribelli e puo
cadere ogni uomo e mediante la quale anche ciascuno di noi può perdersi
o salvarsi.
2) Scelta esistenziale ed origine del male morale. È qui allora, nella
scelta concreta del fine esistenziale, che si attua, nell'alternativa
del bene e del male, la dialettica di orizzontalità e verticalità della
libertà e che si decide la qualità della sua moralità: buona se il fine
concreto è ordinato a Dio, cattiva e perversa se il fine scelto è
curvato sull'io che prende il posto di Dio. È ciò che lo stesso S.
Tommaso ha visto egregiamente ed è su questo che si basa il suo mirabile
trattato delle virtù e dei vizi.
Può darsi -e non era il compito di questa ricerca decidere sull'arduo
argomento- che la dottrina tomistica della libertà sia rimasta chiusa
formalmente entro i limiti del razionalismo od intellettualismo
aristotelico, come i costanti richiami all'Etica Nicomachea fanno
supporre. Non v'è dubbio tuttavia che se consideriamo la dottrina sia
nel suo complesso sia nel suo effettivo ambiente spirituale, essa rivela
non pochi e profondi spunti della natura esistenziale della libertà
ossia dell'emergenza metafisica della libertà sulla ragione. Anzitutto,
la superiorità della libertà quoad exercitium ossia soggettiva sulla
libertà oggettiva quoad determinationem, una distinzione che se non è
completamente ignota resta però appena implicita o comunque inoperante
nell'etica aristotelica. In virtù di questa superiorità, come si è
detto, tutto il settore operativo della coscienza e quindi le stesse
facoltà conoscitive e soprattutto la ragione passa secondo S. Tommaso
alle dipendenze della volontà. Il primo effetto di questa superiorità
della volontà si rivela nel dominio ch'èssa può csercitare sulla stessa
scelta del fine ultimo: «Voluntas est secundum hoc determinata et in
unum naturaliter tendens, ita quod in alterum naturaliter non tendit;
non tamen in illud in quod naturaliter tendit de necessitate, sed
voluntarie tendit; unde et potest illud non eligere. Similiter potest
etiam non eligere illud peccatum in quod sensualitas corrupta inclinat:
quia inclinatio naturalis, ut dictum est, est secundum exigentiam
naturae in qua invenitur talis inclinatio» (55).
È il momento decisivo: se bastasse il contenuto dell'atto a muovere la volontà,
il momento volontario dell'atto che consiste nell'aspirazione formale al bene
ed il momento libero che consiste nella scelta reale sia del fine ultimo
concreto come dei mezzi, finirebbero per coincidere e la libertà
s'identificherebbe con la razionalità in atto.
Pertanto, e di conseguenza, la superiorità di dominio della libertas
quoad exercitium tiene sempre aperta una breccia nel cerchio che tende a
chiudersi da parte della ragione ed è così che possono restare distinte
oggettività-razionalità e libertà-responsabilità. E questa emergenza
della libertà vale anzitutto per la «scelta esistenziale» cioè concreta
del fine, un principio di cui S. Tommaso conosce bene l'importanza ma
che non sempre esplicita fino in fondo, come si è visto: «Voluntas neque
subiecto cogi potest, cum non sit organo affixa, neque obiecto,
quantuncumque autem aliquid ostendatur esse bonum, in potestate eius
remanet elige re illud vel non eligere» (56).
Certamente la volontà, che aspira necessariamente alla felicità,
farà le sue scelte ma a cominciare dalla scelta stessa in concreto
del fine concreto della propria vita.
3) Originarietà fondante della scelta esistenziale del fine. La
conseguenza allora dell'emergenza della libertà di esercizio è ch'èssa
si riflette sulla libertà di specificazione dominandola: perciò gli
uomini, pur desiderando tutti la felicità, poi scelgono in concreto fini
diversi, ed alle volte anche opposti, per la propria vita: chi nei
piaceri, chi nella gloria, ecc.: «...vita ergo voluptuosa dicitur, quae
finem constituit in voluptate sensibili. Vita vero civilis dicitur, quae
finem constituitin bono practicae rationis, puta in exercitio
virtùosorum operum. Vita autem contemplativa, quae constituit finem in
bono rationis speculativae, vel in contemplatione veritàtis» (Sent. Lib.
Ethic., L. I, 1. V, c. 3, nr. 59). Di questa scelta concreta del fine
che fonda la prima moralità dell'agire, la prima responsabile è la
volontà, non le passioni e neppure l'intelligenza poiché la volontà ha
la capacita di dominare quelle e di dirigere questa. Questo è già
incluso nella nozione stessa di appetito razionale il quale si distingue
dall'appetito naturale ed animale, che è «...determinatus ad unum ab
alio» (cioè dall'Autore della natura), in quanto l'uomo, conoscendo la
ragione del fine, «...finem sibi praestituere potest»
(57). È ovvio che
in questa scelta esistenziale del fine, volontà e ragione collaborino,
così che mentre l'aspirazione al fine che segue alla' conoscenza
indeterminata del bene è la semplice risposta della volontà alla
presentazione del bene in generale fatta dall'intelligenza, invece nella
scelta concreta del fine il primo movimento parte dalla volontà stessa
ed è una vera scelta in quanto «...eligere est alterum alteri preoptare»
(58). È interessante
osservare che S. Tommaso, ancora con un riferimento
al Filosofo, si è avvicinato quasi al nucleo del nostro problema, ma in
modo scoraggiànte, cioè dopo aver riaffermato che la «libertas arbitrii
(electio) non se extendit nisi ad ea quae sunt ad finem». Scrive
infatti: «Quod autem in hoc particulari hic homo ultimam suam
felicitatem, ille autem in illo ponat, non convenit huic aut illi
inquantum est homo, cum in tali aestimatione et appetitu homines
diferant, sed unicuique hoc competit secundum quod est in se aliqualis.
Dico autem aliqualem, secundum aliquam passionem vel habitum: unde si
transmutetur, aliud ei optimum videbitur. Et hoc maxime patet in his qui
ex passione appetunt aliquid ut optimum, cessante autem passione, ut
irae, vel concupiscentiae, non similiter iudicant illud bonum ut prius.
Habitus autem permanentiores sunt, unde firmius perseverant in his quae
ex habitu prosequuntur. Tamen quandiu habitus mutari potest, etiam
appetitus et aestimatio hominis de ultimo fine mutatur»
(59). S. Tommaso
stesso afferma espressamente che «...agens per voluntatem praestituit
sibi finem propter quem agit» (Comp. Theol., c. 96, ed. cit. nr. 183, p.
46 b) che può essere diverso dal Sommo Bene, come si è detto, e diventa
la caduta (defectus et peccatum) nel peccato come arresto nel proprio
bene soggettivo «...per hoc quod voluntas remanet fixa in proprio bono
non tendendo ulterius in summum bonum, quod est ultimus finis» (Comp.
Theol., c. 113, ed. cit. nr. 222, p. 55 b. Cf. anche c. 120). E l'anima
dei dannati, non diversamente dagli angeli decaduti, rimarra fissa in
eterno nella scelta errata e ostinata nel male in cui verra trovata al
momento della morte, come gli eletti e gli angeli fedeli «...habebunt
voluntatem firmatam in bono» (Comp. Theol., c. 174 fine, ed. cit. nr.
346, p. 82 b). Così, sul piano esistenziale, l'esito ultimo e decisivo
della vita dipende dalla scelta ultima concreta del fine in concreto
nella sua conformità o difformità rispetto al conseguimento di Dio.
Ma c'è di più, per mostrare che sotto l'impalcatura aristotelica vive
nella dottrina tomistica della libertà uno spirito nuovo. Per Aristotele
la felicità dell'uomo su questa terra consiste nella considerazione
delle scienze speculative con la quale diventa per un poco simile a Dio
(60).
La carenza poi della prospettiva dell'immortalità personale in
Aristotele risulta dalla sua affermazione che si tratta di
un'aspirazione di «cosa impossibile» (boulesis
d esti kai twn adunatwn, oion aqanasias: Eth. Nic. III, 4, 1111 b 23)
(61). L'etica
tomistica, a questo riguardo, ha esattamente capovolto la situazione
mediante l'ideale della speranza cristiana che mette Dio stesso
raggiungibile nell'altra vita, e non una vaga felicità, come il fine
reale beatificante dell'uomo.
Allora nell'etica tomistica -ormai è chiaro- il fine ultimo reale
dell'uomo è Dio ch'è «oggetto di scelta» sul piano esistenziale, mentre
sul piano formale il bonum in communi è solo oggetto di «intentio»: come
fine liberamente scelto, Dio deve dominare tutto il settore intenzionale
delle ulteriori scelte richieste per giungere a Lui «...post hanc
vitam». E così si stabilisce nel bene l'intero dinamismo della volontà e
perciò la qualità morale dell'intera persona ch'è detta «buona» a causa
della «volontà buona», come già è stato accennato
(62). E la ragione di
questa dignità e responsabilità è presa dalla motio quoad exercitium che
la volontà esercita su se stessa e su tutte le potenze rispetto al
conseguimento del fine: «Homo non dicitur bonus simpliciter ex eo quod
est in parte bonus, sed ex eo quod secundum totum est bonus: quod quidem
contingit per bonitaatem voluntatis. Nam voluntas imperat actibus omnium
potentiarum humanarum. Quod provenit ex hoc quod quilibet actus est
bonum suae potentiae; unde solus ille dicitur esse bonus homo
simpliciter qui habet bonam voluntatem» (Q. de virtut. in commnumi, q.
un., a. 7 ad 2). Questa supremazia esistenziale attiva della volontà è
l'esigenza più sentita del pensiero moderno il quale però ha oscillato
paurosamente fra l'assorbimento della volontà da parte dell'intelletto e
dell'intelletto da parte della volontà optando o per il dominio della
ragione o per il titanismo dell'azione.
Conclusione. -
Non v'è dubbio che S. Tommaso nell'articolarsi complesso
del suo pensiero, soprattutto al livello teologico e mistico (della
dominanza della volontà nell'economia delle virtù teologali, dei doni
delIo Spirito Santo e spec. della carità «mater et forma omnium
virtutum») ha colmato generosamente questa lacuna del momento
costitutivo della scelta del fine sul piano naturale della scelta
esistenziale. Ma la lacuna resta: non tocca a me indicare le consequenze
concrete di questa lacuna e le indispensabili integrazioni sul piano di
una pedagogià cristiana dell'uomo moderno ispirata ai principi tomistici
ch'io reputo perennemente validi.
Errano perciò quei neoscotisti che riducono l'essenza della libertà
tomistica alla «indifferenza negativa» del soggetto rispettto ai beni
finiti (63).
In realtà, come pensiamo risulti dalla presente analisi, le cose stanno
all'inverso. Infatti:
1) è in virtù dell'emergenza attiva della libertas exercitii (velle, non
velle) sulla libertas quoad determinationem (velle hoc vel illud) che
per S. Tommaso la volontà può dominare la molteplice pressione non solo
oggettiva da parte delle cose (valori reali, utilità, vantaggi...) ma
anche soggettiva (inclinazioni, passsioni, aspirazioni...);
2) è la libertas exercitii in quanto muove l’intelletto al consilium
(che S. Tommaso indica come reflexio, collatio...), a frenare gli
impulsi oggettivi e soggettivi immediati per mettere la volontà nella
condizione di attuare con responsabilità la sua scelta del bene concreto
e per convogliare la scelta dei mezzi sul bene (fine ultimo concreto)
ch’essa sola e da sé può e deve scegliere a suo rischio e pericolo;
3) perciò in quanto la libertas exercitii può fare «da se stessa» la
prima scelta attiva ponente del velle o non velle, essa pone e risolve
da sé la tensione per l'opzione o scelta fondamenntale del fine (ultimo)
concreto (che S. Tommaso ammette implicitamente e -che Scoto a causa del
primato incondizionato della volontà sembra ignorare);
4) di conseguenza con i termini «indifferens», «indifferenter» ... S.
Tommaso indica la volontà rispetto ai beni (fini e mezzi...) nel momento
della libertas quoad determinationem, osssia in funzione della
riflessione e della collatio del consilium, che precede la opzione
radicale o electio del fine concreto e la scelta dei mezzi.
5) Quindi propriamente in senso assoluto per S. Tommaso la volontà
«segue» semplicemente all'intelletto solo nel primo momento della
simplex apprehensio entis ut perfectivi (bonum) a cui risponde con la
simplex intentio boni et finis ma per prendere subito nelle sue mani il
comando dell'intera vita dello spirito. In senso paradossale quindi
l'indifferenza detta oggettiva (come quando p. es. Kierkegaard dice di
avere 17 motivi per sposare e 17 per non sposare...) si rivela anch'èssa
in concreto soggettiva ed è proprio la condizione stessa della libertà
radicale ossia è la piattaforma che la libertà stessa si crea per fare
il balzo ed avventurarsi nel rischio della scelta radicale.
Nel pensiero moderno dall'estremo intellettualismo della
libertà-spontaneità-necessitàa (Spinoza-Leibniz) e dall'estremo
formalismo del «tu devi» (Kant) si è giunti con Fichte-Schelling-Hegel
alla risoluzione dell'essere nella libertà, la quale forma appunto il
«cominciamento» nella vita dello spirito secondo la formula drastica e
lapidaria di Fichte che può valere per tutto il pensiero moderno: «Sia
che tu derivi l'essere dalla libertà oppure la libertà dall'essere, è
sempre e soltanto la derivazione del medesimo, considerato soltanto in
modo diverso; infatti la libertà ossia il sapere è l'essere stesso»
(64).
Ed in quest'atto intensivo consiste la fichtiana «intuizione intellettuale»
(intellektuelle Anschauung). Questa riduzione estrema
dell'essere al conoscere e del conoscere al volere dipende, come si è detto all'inizio, dalla pretesa del dubbio assoluto radicale ossia di
valer fondare 1'essere sul pensare «senza presupposti»
(Voraussetzungslosigkeit). Una pretesa in sé senza senso e senza
possibilità di esito come sta dimostrando, con conseguenze tragiche di
smarrrimento totale della vitae della cultura, lo sviluppo coerente del
pensiero contemporaneo che ha risolto quel cogito-volo nella dispersione
all'infinito dell'io come possibilità della possibilità ossia senza
traguardo perché ricade sempre nel nulla di essere che lo costituisce.
Di qui anche il superamento della metafisica e lo storicismo radicale
della cosìdetta «antropologià trascendentale» che si vuole introdurre in
questo secondo dopoguerra nella stessa filosofia e teologia come
attuazione del programma di «aggiornamento» del pensiero cristiano col
pensiero moderno. Ma più che di aggiornamento, in questa tattica, si
passa con armi e bagagli dalla parte dell'avversario come fecero un
secolo fa Hermes, Günther, Frohschammer...: aquesto modo non si salva
affatto la libertà, ma la si scarica nel divenire dell'io
(65), nella storia.
Si può riconoscere che Hegel era passato abbastanza vicino al nocciolo
dell'essenza della libertà come tensione di scelta dell'io (e mutua
fondazione di osmosi trascendentale, come si è detto sopra) nella
convergenza di orizzontalità (il finito) e di verticalità (l'Assoluto),
quando scriveva che «...anzitutto però l'autocoscienza come immediata è
prigioniera della sua naturalità -corrisponde penso, alla simplex
volitio boni ed alla intentio finis in communi di S. Tommaso- essa è
libera solo forrmalmente, non è la coscienza della sua libertà infinita:
essa è determinata e pertanto anche il suo oggetto è determinato e la
libertà è come unita con esso solo formalmente, non è unita in sé e per sé»
(66). Per Hegel quindi come la
Erscheinung non ha verità alcuna senza il riferimento al Wesen né il
finito ha realtà senza la fondazione nell'Assoluto, così la libertà del
soggetto (finito) si distrugge nella dispersione delle scelte finite
(la «schlechte Unendlichkeit») e si autentica soltanto nel riferimento
all'Infinito. È su questo riferimento radicale all'Assoluto che anche per
S. Tommaso, a differenza di Aristotele, si attua la libertà radicale e può
«andare in sé» nel suo compimento.
S. Tommaso dal canto suo accenna egregiamente alla «libertà di
riflessione» come atto di «riflessione della libertà»: in essa si deve
attuare non solo la scelta responsabile dei mezzi rispetto al fine, ma
anzitutto e soprattutto la scelta del fine stesso nella consapevolezza
della tensione di finito e Infinito..., dell'opposizione di piacere e
onestà... in cui consiste il rischio della libertà stessa la quale,
immersa nel tempo, opta con assoluto abbandono in Dio per l'eternità. Ma
si tratta appena di cenni: l'impalcatura teoretica della libertà
tomistica è rimasta formale, così almeno è stata interpretata e così
anche è passata nelle polemiche della storia, anche se una lettura «più
interiore» dei testi avrebbe potuto tcmperare quel formalismo. Eppure si
può rilevare ancora in S. Tommaso qualche altro guizzo di avvertenza
genuina della soggettività fondante, che appartiene alla volontà ed alla
libertà, il quale ci riporta in pieno nella sfera esistenziale. Come il
testo seguente che precisa il rapporto dell'influsso di Dio sulla
libertà creata: «Voluntas dicitur habere dominium sui actus non per
exclusionem causae primae, sed quia causa prima non ita agit in
voluntate ut eam de necessitate ad unum determinet sicut determinat
naturam; et ideo determinatio actus relinquitur in potestate rationis et
voluntatis» (67).
Quel «relinquitur» spazza via ogni schema di semplice causalità verticale
discendente ed esalta all'infinito la sintesi, nella libertà umana,
di causalità orizzontale e verticale ascendente nel compimento consapevole
e libero che lo spirito finito assume «di fronte a Dio» (Kierkegaard) del
proprio destino. Primato quindi formale e oggettivo dell'intelletto, ma
primato materiale e soggettivo (esistenziale) della volontà
(68).
A siffatta soluzione -ed è la conclusione esistenziale della nostra
ricerca- si mostra estremamente sensibile S. Caterina da Siena p. es.
nelle sue elevazioni sul Mistero dell'Annunciazione fatta a Maria: «In
te, o Maria, si dimostra oggi la fortezza e la libertà dell'uomo; perché
dopo la deliberazione di tanto e sì grande consiglio, è mandato a te
l'angelo ad annunciarti il mistero del consiglio divino, e cercare la
volontà tua; e non discese nel ventre tuo il Figliolo di Dio, prima che
tu consentissi con la volontà tua. Aspettava alla porta della tua
volontà, che tu gli aprissi, ché voleva venire in te; e giammai non vi
sarebbe entrato se tu non gli avessi aperto dicendo: Ecco l'ancella del
Signore, sia fatto a me secondo la parola tua. Dunque manifestamente si
dimostra la fortezza e libertà della volontà che né bene né male veruno
si può fare senza essa volontà; e non è dimonio né creatura che possa
costringerla a colpa di peccato mortale, se ella non vuole. Né ancora
può essere costretta ad adoperare verun bene più ch'èlla si voglia, sì
che la volontà dell'uomo è libera, che niuno la può costringere a male
né a bene, se ella non vuole. Picchiava, o Maria, alla porta tua la
deità eterna, ma se tu non avessi aperto l'uscio della volontà tua, non
(si) sarebbe Dio incarnato in te» (69).
Non diversamente, nel mondo moderno, si esprime Kierkegaard il quale,
meditando anch'ègli sul mistero dell'Annunciazione, scriveva: «L'Angelo
trovò colei che ci voleva, perché María trovò quel che ci voleva.
Certamente Maria era l'eletta, e così era deciso che fosse Lei. Ma c'è
anche un momento della libertà, il momento dell'accettazione, da cui
appare che si è la persona che ci vuole. Se l'Angelo non l'avesse
trovata quale la trovò, Essa, malgrado tutto, non sarebbe stata colei
che ci voleva. Maria disse: "Ecco, io sono l'ancella del Signore, sia
fatto di me secondo la tua parola"» (70).
Il centro dello spirito quindi di questi sommi, e tale dev'esssere per
ognuno di noi, non è una semplice libertà formale né solo una libertà
d'indifferenza ove la prima e l'ultima parola è all’intelletto ed alla
ragione: una libertà che finisce per configurarsi e dissolversi nella
volontà di potenza e nel dominio della scienza e della tecnica. Il
centro è la libertà nella tensione suprema del Bene supremo ch'è il
momento supremo della dinamica della persona, la libertà ai vertici
dell'amore di cui l'Angelico -malgrado certe apparenze esteriori- è
stato ad un tempo il più fervente cantore ed il più profondo Dottore. La
libertà cioè come punto d'incontro dell'io con Dio per operare la scelta
del proprio essere e strutturare in umbra temporis la speranza della
propria salvezza.
Cornelio Fabro, C. S. S.
Perugià, Università.
(*) Prolusione tenuta nella Pont. Univ. S. Thomae de Urbe nella tornata accademica dell'11 marzo 1971.
(1) M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, § 1; V Aufl. Halle a S. 1941 PP. 2 ss., e passim. Sulla tematica di fondo,
vedi: C. FABRO, Libertà ed esístenza nella filosofia. contemporanea, Prolus. per l'inaugurazione dell'Anno Acc. 1967-68, Annuario Univ. degli Studi di
Perugia, p. 45 ss.
(2) «Sein verschwindet im Ereignis. In der Wendung: "Sein als das Ereignis" meint das "als"
jetzt: Sein, Anwesenlassen geschickt im Ereignen, Zeit gereicht im Ereignen. Zeit und Sein ereignet im Ereignis» (M. HEIDEGGER, Zur Sache des Denkens,
Tübingen, 1969, p. 22 s. Cf. anche: Nietzsche, Pfullingen, 1961, Bd. n, p. 399 ss.).
(3) Secondo Kierkegaard, nella fondazione e definizionea adeguata della libertà, è incluso il rapporto dell'io a
Dio «...come al Principio che l'ha posto» (cf. Sygdommen til Döden, P. I, A; tr. it. di C. Fabro; Firenze;1953, t p. 215 ss.). È l'istanza esistenziale
della «scelta del fine» in concreto, mediante la quale ad un tempo si definisce la propia felicità e, come diremo, si fonda la stessa libertà.
(4) HEGEL, Enz. der. philos. Wiss., § 482; ed. Nicolin-Poggeler, Hamburg, 1959, p. 387 s.
(5) HEGEL, Geschichte der Philosophie, ed. Michelet, Berlin, 1840, t. 1, p.63
(6) HEGEL, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Vorrede; ed. Jo. Hollmeister, Hamburg, 1955, p. 17. Su
Machiavelli, vedi il saggio: Die Verfassung Deutschlands, del 1807 (in «Schriften zur Politik u. Rechtsphilophie», ed. Lasson, Leipzig, 1913, p. 111 ss.).
L'approvazione esplicita delle teorie di «Il Principe» si legge nelle Vorles. über die Philosophie der
Weltgeschichte («Das Mittelalter», § 6; Lasson
864). In questa ammirazione per Machiavelli Hegel era stato preceduto da Fichte (cf. Über Machiavelli, als Schriftsteller und Stellen aus seinen Schriften,
apud: J. G. Fichte's, Nachgelassene Werke, hrsg. J. H. Fichte, Bonn, 1835, Bd. III, P. 403 ss.). Secondo Fichte: «Sein Buch vom Fürsten insbesondere
sollte ein Noth und Hilfsbuch sein für jeden Fürsten in jeder Lage...» a motivo della «treue Wahrheitsliebe und Ehrlichkeit» (p. 406 s.)
(7) SPINOZA, Ethices, Pars II, De Mente, Prop. XXXV Scolium; Gebhardt II, 117.
(8) LEIBNIZ, De libertate, in «Opera Philosophica», ed. Erdmann, nr. LXXVI. rist. Aalen, 1959, p. 669.
Leibniz ha discusso il problema anche in Nouveaux Essais (n, § 8 ss.) nella polemica con Locke (ibid., p. 252 ss.) e nella Théodicée a
proposito delle discussioni sulla «scientia media» fra Tomisti e Molinisti (P. 1, § 46 ss.; ed. cit., p. 516 ss.)
(9) J. Locke,
An Essay concerning Human Understanding, Bk. II, ch. 21,
On Power; ed. J. A. St. John, London, 1854, vol. 1, p. 359 ss. Cf. M.
SALVADORI, Locke and Liberty, Liverpool and London, 1959, p. XI ss.
(10) KANT,
Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Cassirer IV, 305.
(11) KANT,
Kritik der praktischen Vernunft, Vorrede; ed. K. Vorlander,
Leipzig, p. 3 ss.
(12) FICHTE,
Darstellung der Wissenschaftslehre van 1081, §§ 11-12;
Medicus IV, 22 ss. Tutta la speculazione di Fichte, nell'intensa e
incessante evoluzione del suo pensiero, non è che una rinnovata
riflessione sull'originalità della libertà.
(13) Cf. FICHTE,
Angewendete Philosophie: die Staatslehre, Erster Abschn.;
Medicus VI, 436.
(14) SCHELLING,
Philosophische Untersuchungen über das Wesen der menschlichen Freiheit,
S. W. Abt. 1, Bd. VII, p. 386.
(15) HEGEL,
Berliner Schriften (Rec. agli «Aphorismen» di Göschel), ed.
Jo. Hoffmeister, Hamburg, 1956, p. 314. Per il detto attribuito a
Schiller, vedi: Grundlinien der Philosophie des Rechts, § 340, ed. Jo.
Hoffmeister, Hamburg, 1955, p. 288; Enz. d. Philos. Wiss., § 548, ed
Nicolin-Pöggeler, Hamburg, 1959, P. 426.
(16) Cf. M, HEIDEGGER,
Vom Wesen der Wahrheit, Frankfurt a. M., 1949, spec. p. 14 ss.
(17) Cf. C. FABRO,
Antropologia esistenziale e metafisica tomistica, in «De Homine»
(Atti del VII Congresso Tomistico Intern.), Roma 1970, p. 105 ss.
(18) I testi principali
sono stati raccolti da Jo. WERWEYEN, Das Problem
der Willensfreiheit in der Scholastik, Heidegger, 1909, p. 144 ss.
L'A.
parla di una «wörtliche Übereinstimmung» di S. Tommaso con Aristotele,
ma sembra ignorare lo sviluppo decisivo della Q. De Malo e la sua
progressiva preparazione: a partire specialmente dalla S. Th. (Ia-IIae)
prende rilievo il De natura hominis di Nemesio (attribuito a Gregorio di
Nissa). Fra la nozione teologica di libertà (potestas servandi
rectitudinem voluntatis: libertas a peccato, libertas a miseria...)
ispirata a S. Agostino e svolta da S.Bernardo e S. Anselmo ... e quella
filosofica di Boezio (liberum de voluntate iudicium), S. Tommaso opera
con discrezione una sintesi che si è compiùta -come si dirà, ma ch'èsula
da questa ricerca- soltanto nella sua visione teologica.
Secondo il Pomponazzi l'unica via sicura della libertà è «...secundum
traditionem evangelicam quae non ex hominibus verum ex Spiritu Sancto
processit». Nella filosofia di Aristotele la libertà è impossibile a
causa di due principi: «Tenet enim Aristoteles Deum de necessitate agere
et omnia, secundum speciem quae sunt, esse necessaria. [...] Habet
quoque Aristoteles alterum principiùm quod libertàti voluntatis aperte
repugnat. Existimat enim quod causa eodem modo se habente non possunt
provenire diversi effectus: quare ex hoc existimavit a Deo de novo non
posse provenire mutationem vel motum vel aliquod aliud aliter se habere
quam prius se habuit» (De fato, de libero arbitrio et de
praedestinatione, lib. III, c. 1; ed. Lemay, Lugano, 1957, p. 223, 1.
13-26. Cf. più sotto: c. 9, p. 277, 1. 2-7). In realtà, la radice del
determinismo aristotelico è più profonda cioè l'intellettualismo di
tutto il pensiero classico al quale Aristotele regisce in parte
nell'ambito etico-psicologico con la mirabile teoria degli abiti e delle
virtù affermando espressamente che la volontà è padrona dei suoi atti
(cf. Eth. Nic., III, 8, 1114 b 26 ss., spec., 1114 b 31-1115 a 3).
Pomponazzi per suo conto trova perciò che Aristotele si contradice
affermando insieme la connessione necessaria fra la causa adeguata ed il
suo effetto e la libertà della volontà: «Mihi autem videtur quod
Aristoteles sibi contradixit et quod aperte negat fatum [contro
l'interpretazione di Cicerone nel De fato, c. 17], ut manifestum est in
I libro de Interpretatione 6, et IX Metaphysicae et per omnes Libros
Morales; ex suis tamen principiis videtur sequi quod omnia fato
proveniant» (Op. cit., ed. cti., p. 182, l. 20-183, 1. 5. E alla p. 180,
1. 11: «Aristoteles habet duo principia invicem repugnantia et quae
nullo modo coire possunt» cioè il determinismo della causalità e la
libertà della volontà).
(19) Il parallelismo delle
due sfere, conoscitiva e tendenziale, è categorico: «Necesse est quod
sicut intellectus ex necessitate inhaeret primis principiis, ita voluntas
ex necessitate inhaeret ultimo fini, qui est beatitudo». E la fonte è
Aristotele: «Finis enim se habet in operativis, sicut principium in
speculativis, ut [a Philosopho] dicitur» (S. Th. I, q. 82, a. 1). E si
tratta di una vera «necessitas naturalis» (ib., ad 1) che ha il suo
corrispondente nell'apprensione dei primi principi (ib., ad 2).
Per il richiamo aristotelico cf.: Phys., n. 9, 202 a 21.
(20) Questa «necessità»
per la volontà anzi si può estendere anche alla sfera dei mezzi: p. es.
quando non c'è che un mezzo per arrivare al fine ed è detta appunto la
necessitas finis (S. Th., I, q. 82, a. 1).
(21) S. Th., I, q. 82, a. 2 e ad 2. In superficie quindi S. Tommaso
sembra rimanere fedele alla defmizione aristotelica di uomo come animal
rationale, ma in realtà la supera «in actu exercito» come si dirà,
facendo della volontà il primus universalis motor della vita della
persona. Per una critica della definizione aristotelica, vedi: M. HEIDEGGER,
Sein und Zeit, § 6; Halle a. S., 1927, p. 25 e passim, e le osservazioni di
H. LIPPS, Die menschliche Natur, Frankfurt a. M., 1941, p. 60 s.
(22) S. Th. l-II,
q. 13, a. 1. Il principio è ribadito sia nella q.
9, a. 6 ad 3: «Homo per rationem determinat se ad volendum hoc vel
illud», poi nella q. 17, a. 1 ad 2: «ratio est causa libertatis» ed
infine nella q. 88, a. 2: «ratio est proprium principium peccati».
Contro questi testi (fuori del contesto?) si scaglia il contemporaneo G.
DE LA MARE, O.F.M. verso il 1282: Declarationes de variis sententiis S.
Thomae Aquinatis, nri 35-37 (ed. F. Pelster, Münster i. W. 1955, p. 23 s.).
(23) De Ver., q. 24, a. 2.
Però, osserviamo subito, l'atto del giudizio
pratico, che costitusce la electio, è attribuito alla volontà fin dal
Commento alle Sentenze: «Quamvis judicium non pertineat ad voluntatem
absolute, judiicium tamen electionis, quae tenet locum conclusionis, ad
voluntatem pertinet, secundum quod in ea virtùs rationis manet» (II., d.
24, q. 1, a. 3 ad 2; Mandonnet n, 597). Di conseguenza è in questo senso
«soggettivo» che va intesa la definizione filosofica della libertà
(«liberum de voluntatem iudicium»): «... Ly "de" non denotat causam
materialem, quasi voluntas sit id de quo est judicium, sed originem
libertatis, quia quod electio sit libera hoc est natura libertatis» (ad
5; Mandonnet II, 598).
(24) S. Th., I, q. 82, a. 3.
La conclusione c'è già, in questi
stessi termini, nel Commento alle Sentenze dove il confronto si articola
in tre, e non solo in due momenti: «primo secundum ordinem», e allora
«...cognoscitiva potentia naturaliter prior est»; «secundo secundum
capacitatem», e qui sono uguali sia perché «...sicut cognoscitiva est
respectu omnium, ita est appetitiva», sia perché l'una include l'altra
«...quia intellectus et voluntatem cognoscit et voluntas ea quae ad
intellectum pertinent appetit vel amat»; «tertio secundum eminentiam vel
dignitatem, et sic se habent ut excedentia et excessa...» ancora la
palma -non si sa perché- spetta all'intelletto. Solo per riguardo al
rapporto rispetto alle cose superiori all'uomo allora «...est voluntas
nobilior et altior amor quam cognitio» (In III Sent., d. 27, q. I, a. 4;
Mandonnet-Moos III, 869).
(25) S. Th.·I-II, q. 3, a. 4.
Quest'estrinsecismo dell'argomentazione è ancora più evidente nel C. Gent.
(II, 26) ove gli atti della volontà sono presentati secondo lo schema formale
aristotelico: ivi la superiorita della volontà è detta non solo secundum
quid ma perfino per accidens.
(26) Cf. De Ver., q. I, a. 1.
Il problema è ripreso e approfondito per i
rapporti dei trascendentali fra loro nella q. 21: «Si attendatur ordo
inter verum et bonum ex parte perfectibilium, sic bonum naturaliter
prius esto quam verum. Primo, quia perfectio boni ad plura se extendit
quam perfectio veri ... Secundo, quia illa quae nata sunt perfici bono
et vero, per prius perficiuntur bono quam vera: ex hoc quod participant
esse, perficiuntur bono» (ib., a. 3). In apertura di articolo poi si
legge che mentre il «...verum... est perfectivum alicuius secundum
rationem speciei tantum, bonum autem non solum secundum rationem speciei
sed secudum esse quod habet in se» (cf. anche più sotto: a. 5 ad 3). Non
è evidente allora la superiorita del bene sul vero e per conseguenza
della volontà sull'intelletto? In tutta questa questione la conclusione
ovvia -se non dominasse Aristotele- sarebbe la priorità psicologica del
verum e la priorità metafisica con la superiorità reale del bonum (come
«perfectum et perfectivum») sul verum e perciò della volontà
sull'intelligenza.
(27) «Objectum intellectus
est ipsa ratio boni appetibilis; bonum autem appetibile, cuius ratio est
in intellectu, est objectum voluntatis» (S. Th., I, q. 82, a. 3). Più
precisa è la formula di De Ver.: «Objectum intellectus practici non est
bonum, sed verum relate ad opus» (q. XXIII, a. 10 ad 4).
(28) La nostra formula
intende mantenersi fedele alla concezione
aristotelica del conoscere: «Finis autem nostri desiderii Deus est; unde
actus quo ei primo coniungimur, est originaliter et substantialiter
nostra beatitudo. Primo autem Deo coniungimur per actum intel1ectus; et
ideo ipsa Dei visio, quae est actus intellectus, est substantialiter et
originaliter nostra beaatitudo. Sed quia haec operatio perfectissima
est, et conventissimum obiectum; ideo consequitur maxima delectatio,
quae quidem decorat operationem ipsam et perficit eam, sicut pulchritudo
iuventutem, ut dicitur X Ethic. Unde ipsa delectatio quae voluntatis
est, est formaliter complens beatitudinem. Et ita beatitudinis ultimae
origo est in visione, complementum autem in fruitione» (Quodl., VIII, q.
IX, a. 19). La formula comprensiva poteva essere proprio questa:
«beatitudinis ultimae origo est in visione [intellectus], complementum
autem in fruitione [voluntatis]». Un testo parallelo, più sobrio, e
quello della Expos. super Ev. Matth., c. V, l. 2: «Notandum quod
secundum Philosophum, ad hoc quod actus contemplativi faciant beatum,
duo requiruntur; unum substantialiter, scilicet quod sit actus altissimi
inntelligibilis, quod cst Deus; aliud formaliter, scilicet amor et
delectatio: delectatio enim perficit felicitàtem sicut pulchritudo
inventutem» (ed. R. Cai, Torino, 1951, nr. 408, p. 66 a). Non conosco
l'origine e l'eventuale fonte di questa terminologia tomistica. Già nel
Commento alle Sentenze si legge che il momento della volontà è «...quasi
formaliter complens rationem beatitudinis» (In IV Sent., d. 49, q. I, a.
1, Sol. II).
(29) Ancora: Quodl., VIII, q.
IX, a. 19.
(30) S. Th., I, q. 82, a. 4.
Anche nel Commento alle Sentenze si legge:
«Iudicare de actibus omnium potentiarum non potest convenire alicui
potentiae quae sit aliud quam voluntas vel ratio; praecipue cum Anselmus
dicat quod voluntas est motor omnium virium: oportet enim ut ae quae est
liberrima super alias dominium et imperium habeat» (In II Sent., d. 24,
q. I, a. 3, Sol.; Mandonnet II, 596). Per il riferimento a S. Anselmo,
gli Editori Canadesi danno qui: De Similit., c. 2: «Mox enim ad imperium
eius [scil. voluntatis] omnes aperiuntur animae et corporis sensus» (P.
L. 159, 605). Il testo è dello Ps. Anselmo, ma si trova in termini
equivalenti nell'autentico De conceptu virginali: «Ut ad imperium eius
non possimus non movere nos ... immo illa [voluntas] movet nos velut
instrumenta». E conclude: «Quidquid igitur faciunt, totum imputandum est
voluntati» (P. L. 158, 438; ed. Schmitt II, 144. Devo questa
precisazione, sfuggita agli Editori e, mi sembra, anche al Lottin, al P.
Cl. Vansteenkiste che qui ringrazio). La scuola tomista sembra aver
accentuato la piega essenzialistica ignorando completamente questo
primato dinamico (esistenziale) della volontà che S. Tommaso ha preso,
come si è visto, da S. Anselmo (e dalla tradizione
agostiniano-dionisiana)- come risulta p. es. dell'opuscolo del
domenicano Vincenzo Bandello (1435-1506), morto generale dell'Ordine,
nel quale si difende l'assoluta superiorita dell'intelletto sulla
volontà, senz'alcun accenno alla distinzione che diventa sempre più
operante nel S. Dottore, fra libertas quoad specificationem (rispetto al
contenuto) e quoad actum (= exercitium actus) che forma l'originalità
della sua sintesi di platonismo e aristotelismo. L'opuscolo fortemente
polemico, conservato in due codici fiorentini, porta il titolo: «Quod
beatitudo hominis in actu intellectus et non voluntatis essentialiter
consistit» (L'opuscolo fu scoperto ed edito da O. P. Kristeller: Le
Thomisme et la pensée italienne de la Renaissance, Montréal, 1967, p.
112; per il testo, p. 195 ss.).
(31) La priorita dinamica
del bonum sul verum ma anche sullo ens è un
motivo platonico che S. Tommaso ha trovato soprattutto nello Ps. Dionigi
il quale nel De divinis Nominibus fa precedere il De bono (c. 4) al
De
ente (c. 5) in quanto mentre lo ens abbraccia solo le cose esistenti, il
bonum si estende anche a ciò che non esiste. Ciò dà il fondamento
metafisico della creazione da parte di Dio della materia prima, ignorata
dal pensiero classico; in quanto Dio, ch'è il Sommo Bene, è diffusivum
sui e crea per atto d'amore, ama quindi ciò che ancora non esiste. E di
riscontro, la materia prima appetisce in senso ascendente al bene e alla
forma come suo atto (cf. S. Th., I, q. 5, a. 2 ad 1. Il principio è
ribadito anche nell'ad 2 ed è già nel De Ver., XXI, 2 ad 2. Per
l'illustrazione di questo sfondo platonico del tomismo, v. C. FABRO, La
nozione metafisica di partecipazione, III ed., Torino, 1963, p. 75 ss.).
(32) Non è affatto esatto
allora affermare che per S. Tommaso la volontà
è soltanto (principio) «portatore» (Träger) e che la ragione è il
«fondamento e la causa» (Grund und Ursache) della libertà (cf. G.
SIEWERTH, Thomas von Aquin: Die menschliche Willensfreiheit, Düsseldorf,
1954, p. 50 s.). La funzione dell'intelletto nell'atto libero è per S.
Tommaso di natura oggettiva cioè formale: proprio perchè è principio di
aspirazione al bene e perché è causa della scelta del fine concreto, la
volontà diventa (principio) «portatore» cioè il soggetto ossia il
principio attivo dela libertà stessa. Il «fondamento» ultimo della
libertà è la spiritualità della persona umana come tale, comune quindi
all'intelleto e alla volontà.
(33) Qui però si puo richiamare
la tesi tomistica secondo la quale «...differentiae rerum sunt nobis ignotae»
(ad eccezione della conoscenza che nella riflessione ha l'anima della sua
spiritualità. Cf. S. Th., I, q. 88, a. 2 ad 3) e dobbiamo accontentarci di
caratteri astratti e vaghi che cerchiamo di integrare con i caratteri presi
dall'esperienza diretta (conversio ad phantasmata). Così ci facciamo le
nozioni dei minerali, dei vegetali, degli animali... secondo una ricerca
mai adeguata e sempre aperta.
(34) Ed è ciò che afferma lo
stesso S. Tommaso in un testo raro, anzi a
mia conoscenza unico, ch'è una replica alla insinuazione che
«...intelligentia habet auctoritatem respectu voluntatis, et est maior
et potentior ea»: «Dicendum quod voluntas non directe ab intelligentia
procedit; sed ab essentia animae praesupposita intelligentia. Unde ex
hoc non ostenditur ordo dignitatis, sed solummodo ordo originis, quo
intellectus est prior naturaliter voluntate"» (De Ver., q XXII, a. 11 ad
6). Sarebbe bastato fermarsi a quel solummodo ordo originis per
equilibrare tutta la situazione, ch'è stata poi turbata dalla poco
felice distinzione di simpliciter e secundum quid (ib., q. XXII, a. 11).
Similmente nel Comm. all'Ep. ad Hebr. S. Tommaso afferma che
«...intellectus et voluntas, quae distinguuntur penes distinctionem veri
et boni, habent inter se diversum ordinem. Inquantum enim intellectus
apprehendit veritatem et quidquid in ipsa continetur, sic verum est
quoddam bonum, et sic est bonum sub vero. Sed inquantum voluntas movet,
sic verum est sub bono. In ordine ergo cognoscendi, intellectus est
pior, sed in ordine movendi voluntas est prior» (Super Epist. S. Pauli
Lectura, Ad Hebr. C. XI,1. 1; ed. Taur., nr. 554).
(35) Cf. spec.: q. VI.
De electione humana seu libero arbitrio. In
questa che sembra l'ultima esposizione della dottrina sulla libertà, S.
Tommaso cerca (e quasi raggiunge) il superamento dell'opposizione fra
determinismo e indeterminismo, fra intellettualismo e volontarismo.
Nella nuova prospettiva esistenziale, da noi adottata, le opposizioni
che le rispettive scuole hanno esasperato fra Tommaso e Scoto, fra
Bannez e Molina ... in forma sistematica vanno approfondite riportandole
alla differenza profonda dello Standpunkt iniziale (cf. Jo. AUER, Die
menschliche Willensfreiheit im Lehrsystem des Thomas von Aquin und Jo.
Duns Scotus, München, 1938, p. 285 ss.).
(36) Qui, come si vede,
la terminologia è più precisa e non si dice più
che il bonum appetibile è oggetto dell'intelletto. Anche qui S. Tommaso
parla di un bonum intellectum, nel senso ovvio che 1'uomo per poter
tendere in qualcosa e sceglierla, deve prima conoscerla.
(37) Q. De Malo, q. VI,
art. un. E già prima: «Bonum in communi, quod
habet rationem finis, est obiectum voluntatis. Et ideo ex hac parte
voluntas movet alias potentias animae ad suos actus: utimur enim aliis
potentiis cum volumus. Nam fines et perfectiones omnium aliarum
potentiarum comprehenduntur sub obiecto voluntatis, sicut quaedam
particularia bona» (S. Th., I-II, q. 9, a. 1). Non ci sembra perciò
una formula esatta della complessa dialettica della posizione tomistica
accentuare nel dinamismo della libertà il momento dell'intelligenza:
«Pour le reste Saint Thomas maintient que la liberté de la volonté
déliberée est basée sur l'indétermination du jugement précédent ». E si
conclude: «La libérté de la volonté déliberée est donc fondée sur
l'indétermination, 1'indifférence du jugement pratique préalable » (O.
LOTTIN, Psycologie et morale aux XII et XIII siècles, Louvain, 1942, t.
I, p. 206 s.). Non è l'indifferenza passiva che per S. Tommaso fonda la
libertà originaria del volere, ma il suo potere attivo sull'atto del
volere stesso (volo velle, volo quia volo...) col quale puo dominare
anche l'intelligenza, quindi riformare sempre il giudizio pratico e
perciò anche modificare tutte le proprie scelte. Ma l'A. ha ragione
quando, seguendo l'interpretazione tradizionale, afferma di vedervi
«...l'expression d'un apparent déterminisme psychologique» (1. c.).
(38) Evidentemente come
ogni causa seconda è mossa originariamente dalla
Causa prima, anche la volontà è mossa da Dio in tutta la profondità e
l'estensione del suo agire. Questo però va inteso nell'ambito
trascendentale dell'atto metafisico, così che non solo resta intatta ma
viene anzi attuata l'originalita che compete alla libertà come principio
attivo: «...quantum ad exercitium actus ... intellectus movetur a
voluntate, voluntas autem non ab alia potentia sed a seipsa» (De Malo,
I. c., ad 10). Nello stesso contesto: «Liberum arbitrium est causa sui
motus: quia homo per liberum arbitrium seipsum movet ad agendum. Non
tamen hoc est de necessitate libertatis quod sit prima causa sui id quod
liberum est: sicut nec ad hoc quod aliquid sit causa alterius,
requiritur quod sit prima causa eius» (S. Th., 1, q. 83, a. 1 ad 3).
(39) De Malo, ad 20.
Anche nella S. Th.: «Voluntas per hoc quod vult finem movet seipsam
ad volendum ea quae sunt ad finem» (I-II, q. 3, a. 3).
(40) Tale principio
interiore è tanto Dio come la volontà, ciascuno nel suo piano di causa
prima e causa seconda (cf. De Malo, III, a. 3).
(41) «Liberum est quod
causa sui est, secundum Philosophum in principio
Metaphysicae» (De Ver., q. XXIV, a. 1). L'espressione aristotelica tò ou
éneka (causa sui, lett.: id cuius gratia) è più generica e indica il
fine (télos) di ogni movimento e generazione (Metaph., I, 1, 983 a 31).
L'espresssione quindi «causa sui», che nel monismo di Spinoza è al
nominativo ed ha significato metafisico, in Aristotele va all'ablativo
ed ha significato etico-psicologico ed in S, Tommaso etico-ontologico.
L'Angelico conosce bene anche I'espressione all'ablativo: «Cum enim
liber qui est causa sui, servus autem qui est causa alterius sicut ab
alio movente motus» (Super Epist. S. Pauli Lectura, Ad. Rom. c. 1, 1. 1;
ed. Taur., nr. 21).
(42) De Ver., q. XXIV, a. 6.
In questo contesto un vecchio tomista
spiegava la libertas exercitii in termini che ci sembrano cogliere il
nodo della questione: «Du moment, en effet, que par la réflexion j'ai
pris possession de moi meme, j'ai en main mon activité tout entiere,
cognitive et volitive, et la domine. Dès lors, je puis non seulement la
diriger, mais je puis la suspendre. Et c'èst même parce que je puis la
suspendre que je puis la diriger; sinon, le jugement actuellement
présent m'entrainerait nécessairement. Mais comme je puis ne pas
vouloir, je puis indéfiniment rejeter le jugement formé, je puis le
modifier a mon gré, et ne le suivre que lorsque vraiment il me plait»
(L. NOEL, La conscience du libre arbitre. Louvain. Paris, 1899, p. 218).
Ma anche il Noël sembra ignorare la dialettica esistenziale della
electio finis.
(43) De Ver., q. XXIV,
a. 6 ad 3. S. Tommaso perciò vede in questo
giudicare l'attuarsi del «causa sui» ossia della libertà in atto: «Homo
per virtutem rationis iudicans de agendis, potest de suo arbitrio
iudicare, in quantum cognoscit rationem finis et eius quod est ad finem,
et habitudinem et ordinem unius ad alterum: et ideo non est solum causa
sui ipsius in moovendo, sed in iudicando; et ideo est liberi arbitrii,
ac si diceretur liberi iudicii de agendo vel non agendo» (De Ver., q.
XXIV, a. 1). Ed il giudizio riguarda anzitutto l'attuarsi dell'atto:
«Iudicium de actione propria est solum in habentibus intellectum quasi
in potestate eorum constitutum sit eligere hanc actionem vel illam: unde
et dominium sui actus habere dicuntur» (In II Sent., d. 25, q. 1, a. 1;
Mandonnet II, 645). Concesso infatti che il liberum judicium non cade
sotto la scelta perché la precede, esso rimane però sempre sotto la
volontà che muove l'intelletto alla collatio: «Judicium cui atttribuitur
libertas, est judicium electionis; non autem judicium quo sententiat de
conclusionibus speculativis; nam ipsa electio est quaedam scientia de
praeconsiliatis» (De Ver., q. XXIV, a. 1 ad 17).
(44) De Ver., q. XXII,
a. 6 e ad 3. È di qui che nasce il vigore proprio della volontà onde
poter dominare se stessa e tutte le altre facoltà: «Non pertinet ad
impotentiam voluntatis, si naturali inclinatione de necessitate in
aliquid feratur, sed ad eius virtutem» (De Ver., q. XXII, a. 5 ad 2
in contrarium).
(45) De Ver., q. XXIV,
a. 10 ad 14. E si tratta di appartenenza reale
nel senso proprio di «autoobbedienza »: «Voluntas sibi ipsi quodammodo
semper obbedit, ut sc. homo qualitereumque velit illud quod vult se
velle. Quodam autem modo non semper sibi obedit, in quantum scilicet
aliquis non perfecte et efficaciter vult quod vellet se perfecte et
efficaciter velle». Il diavolo, che con la sua libertà si è confermato
nel male, anch'ègli «...sibi ipsi obedit..., quia impossibile est eum
velle quod velit efficaciter bonum» (ib., ad 15). La volontà immutabile
del male dei diavoli e dei dannati è quindi appartenenza di libertà
autoradicata nel male, ferma restando -sul piano ontologico- la bontà
dell'inclinazione naturale: «Appetitus enim quo deamones appetunt bonum
et optimum, est inclinatio quaedam ipsius naturae, non autem ex
electione liberi arbitrii» (ib., ad 17).
(46) De Ver., q. XXIV,
a. 12 ad 4. ef. anche più sotto: «Liberum arbitrium propter hoc quod
habet dominium sui actus, potest quandoque ad hoc curam apponere, et
non uti proprio defectu» (ib., ad 2 in contrarium).
(47) Anche un po' prima:
«Quamvis intellectus sit prior voluntate simpliciter, tamen per
reflexionem efficitur voluntate posterior; et sic voluntas intelllectum
movere potest» (De Ver., q. XXII, a. 12 ad 1).
(48) De Ver., q. XXII, a. 12.
(Sulla «circulatio» nella vita dello spirito, vedi: In VI Sent., d.49,
q. 1, a. 3, Sol. 1; De pat., q. IX, a.9). Questa compenetrazione dinamica
di riflessione fra intelletto e volontà è un tema costante (cf. S. Th.,
I-II, q. 4, a. 4 ad 3; ib., q. 9, a. 1 ad 3. Vedi anche: 1, q. 82, a. 4 ad 3).
(49) È ricorso a questa terminologia
anche J. De Finance (Les plans de la liberté, Sciences ecclesiastiques XIII-3
[1961], p. 302 s.), però con altro senso: la libertà orizzontale o materiale
riguarda i mezzi, quella verticale o morale riguarda il fine ossia l'ideale.
Ma non è tutto l'asse di azione della libertà appartenente alla moralità?
E questa non sorge appunto dalla electio finis come scelta esistenziale
fondamentale?
(50) All'interpretazione
intelletualistica della libertà tomistica si
attene anche (sotto l'influsso dell'indirizzo sopracitato di G.
Siewerth) il teologo protestante: H. VORSTER, Das Freiheitsverständnis
bei Thomas van Aquin und Martin Luther, Gottingen, 1965 (p. 137 ss.).
Per il neotomismo cf. la formulazione del Gredt: «Voluntas humana
necessario vult necessitate speecificationis, non tamen necessitate
exercitii bonum in communi sue beatitudinem in communi, et quae cum ea
necessario connectuntur; Deum clare visum vult necessario necessitate
tum specificationis, tum exercitii; circa cetera bona particularia et
ipsum Deum, prout in hoc statu unionis cum corpore cognoscitur,
libertàte gaudet tum quoad specificationem, tum quoad exercitium; circa
Deum vero, prout in statu separationis naturaliter cognoscitur, non
gaudet libertàte neque specificationis neque exercitii» (J. GREDT,
Elementa Philosophiae aristotelico-thomisticae, Thesis LIX,
Friburgi Brisgoviae, 1937, vol. 1, p. 478).
(51) È il celebre testo:
dio h orektikos nous h proairesis h orexis dianohtikh,
(Ethic. Nic., VI, 2, 1139 b 4) che S. Tommaso tiene sempre presente (cf. S. Th.,
I, q. 83, a. 3).
(52) S. Th., I-II,
q. 13 a. 1. Abbiamo già osservato il carattere intellettualistico di
questa classificazione: materialiter per la volontà e formaliter per la ragione.
(53) De Ver., q. XXII, a. 13.
S. Tommaso conosce questa situazione e mette in guardia contra le false
«scelte» dell'ultimo fine (cf. C. Gent., III, cc. 27-37; S. Th., I-II, q. 2, aa. 1-8).
(54) De Ver., q. XXIV, a. 1 ad 6.
Cf. anche ad 11: «Quamvis homo naturaliter bonum appetat in generali,
non tamen in speciali, ut dictum est, in solutione ad 6 argumentum;
et ex hac parte incidit peccatum et defectus».
Perciò S. Tommaso stesso parla -per la costituzione della moralità
dell'atto- di «finis debitus» (e «indebitus»), una distinzione che si
applica ovviamente al fine concreto che sceglie ogni singolo: «Ad hoc
quod voluntas sit recta, duo requiruntur. Unum est quod sit finis
debitus; aliud, ut id quod ordinatur in finem, sit proportionatum fini.
Quamvis autem omnia desideria ad beatitudinem referantur, tamen
contingit utrolibet modo desiderium esse perversum: quia et ipse
appetitus beatitudinis potest esse perversus, cum quaeritur ubi non
est,1 ut ex dictis patet; et si quaeratur ubi est, potest contingere
quod id quod propter hunc finem appetitur, non est fini proportionatum,
sicut cum quis vult furari, ut det eleemosynam, per quam mereatur
beatitudinem» (In IV Sent., d. 49, q. 1, a. 3, Sol. IV).
(55) In II Sent.,
d. 39, q. II, a. 3 ad 5; Mandonnet II, 994. E un po' prima con
forza enunzia quel che si potrebbe dire il principio della
«indifferenza» come costitutivo della libertà: «Ipsa enim potentia
voluntatis, quantum est de se, indifferens est ad plura; sed quod
determinate exeat in hunc actum vel in illum non est ab alio
determinante, sed ab ipsa voluntate» (ib., d. 39, q. 1, a. 1;
Mandonnet II, 985).
(56) In II Sent., d. 25,
q. 1, a. 2; Mandonnet II, 648. Ed un po' sopra: «Hoc ad libertatem
arbitrii pertinet ut actionem aliquam facere vel non facere possit»
(ib., d. 25, q. 1, a. 1 ad 2; Mandonnet II, 646). Ancora:
«Ex hoc liberum arbitrium in nobis dicitur quod domini sumus nostrorum
actuum» (ib., d. 25, q. 1, a. 2 Praeterea; Mandonnet II, 648); «In
voluntatis potestate est actum non facere sicut et facere» (ib., d. 35,
q. 1, a. 3 ad 5; Mandonnet II, 907).
(57)
In II Sent., d. 25, q. 1, a. 1; Mandonnet II, 645. Perciò: «...etsi
ratio obnubiletur a passione, remanet tamen aliquid rationis liberum.
Et secunndum hoc potest aliquis vel totaliter passionem repellere; vel
saltem se tenere ne passionem sequatur" (S. Th., I-II, q. 10, a. 3 ad 2).
(58) In II Sent.,
d. 24, q. 1, a. 2; Mandonnet II, 593. Per S. Tommaso
stesso il fatto che «...ratio beatitudinis nota est», non toglie che
«...beatitudo sit occulta quoad substantiam: omnes enim per beatitudinem
intelligunt quemdam perfectissimum statum; sed in quo consistat ille
status perfectus, utrum in vita vel post mortem, vel in bonis
corporalibus, vel spiritualibus, et in quibus spiritualibus, occultum
est» (ib., d. 38, q. 1, a. 2 ad 2; Mandonnet II, 972).
(59) Compendium Theologiae,
c. 174, ed. Taur., nr. 346, p. 82 a.
L'allusione (implicita) ad Aristotele è nell'espressione «...sed
unicuique hoc competit secundum quod est in se aliqualis» ch'è riportata
di solito nella formula: «Qualis unusquisque est, talis finis videtur
ei» (cf. per es.: S. Th., I-II, q. 9, a. 2). Nell'originale:
...all o poios poq ekastos esti; toiouto kai
to telos fainetai autv (E. N.
III, 5, 1114 a 32). L'espressione resta indeterminata e S. Tommaso
l'intende della situazione passionale. D'altra parte la libertà secondo
l'Angelico può dominare anche le passioni e quindi ritorna la sua
supremazia anche per la scelta del fine.
(60) Cf. Metaph., XII, 7,
1072 b 23 s. Ha fatto osservazioni molto
pertinenti sull'arduo intrecciò di necessità e libertà nell'aspirazione
alla felicità presso la poesia e filosofía greca, R. SCHAERER, L'homme
devant ses choix dans la tradition grecque, Louvain-Paris, 1965, spec.
P. 43 ss.
(61) Questa frustazione
radicale e finale dell'uomo nel mondo classico, e proprio per Aristotele,
è avvertita espressamente con malinconia e finezza dallo stesso S. Tommaso:
«Quia vero Aristoteles vidit quod non
est alia cognitio hominis in hac vita quam per scientias speculativas,
posuit hominem non consequi felicitatem perfectam, sed suo modo. In quo
satis apparet quantam angustiam patiebantur hinc inde eorum praeclara
ingenia. A quiibus angustiis liberabimur si ponamus, secundum
probationes praemissas, hominem ad veram felicitatem post hanc vitam
pervenire posse, anima hominis immortali existente in quo statu anima
intelliget per modum quo intelligunt substantiae separatae» (C. Gent.
III, 48 in fine).
(62) E in un contesto
simile a quelli già citati: «Simpliciter autem et
totaliter bonus dicitur aliquis ex hoc quod habet voluntatem bonam, quia
per voluntatem homo utitur omnibus aliis potentiis. Et ideo bona
voluntas facit hominem bonum simpliciter; et propter hoc virtus
appetitivae partis secundum quam voluntas fit bona, est quae
simplíciter bonum facit habenntem» (Q. De virtutibus in communi, q. un.,
a. 9 ad 16). Anche in un testo giovanile: «Quamvis voluntas bonum
appetat non tamen appetit semper quod est vere sibi bonum, sed id quod
est apparens bonum; et quamvis omnis homo beatitudinem appetat, non
tamen quaerit eam in eo ubi est vera beatitudo, sed ubi non est, et ideo
nititur ad eam pervenire non per rectam viam; et propter hoc non oportet
quod omnis voluntas sit bona» (In II Sent., d. 38, q. 1, a. 4 ad 3;
Mandonnet II, 979).
(63)
Per es. W. HOERES, Der Wille als reine Vollkommenheit nach Duns
Scotus, München, 1962, p. 211 ss.Pomponazzi che, nel Rinascimento, ha
fatto l'analisi più vasta ed acuta del nostro problema, sembra
restringere l'attività della libertà alla «suspensio actus» cioè al
rifiuto del velle di fronte alla presentazione del bene da parte
dell'intelletto (Op. cit., lib. III, c. 8; ed. cit., p. 263, 1. 8-23).
Si deve ammettere che, poiché la suspensio che rifiuta e l'accceptatio
che accoglie coesistono nella potenzialita della volontà, la decisione
(qualunque sia) dev'essere in funzione di una scelta attiva qual'è
appunto la scelta esistenziale del bene e fine in concreto -di cui
Pomponazzi non fa cenno, mi sembra- una scelta ch'è iniziativa e rischio
appunto della libertà stessa.
(64)
«Ob das Sein von der Freiheit, oder die Freiheit von dem Sein
ableitest, ist es immer nur die Ableitung desselben von desselben, nur
verschieden angeschen; denn die Freiheit oder das Wissen ist das Sein
selbst » (FICHTE, Darstellung der Wissenschaftslehre 1801, § 17; Medicus
IV, 34).
(65)
Ha ragione perciò il cartesiano fenomenologo Sartre di ricordare
all'hegeliano Heidegger la propria nozione della libertà centrata tutta
sull'atto, cioè ridotta alla sola «libertas quoad exercitium»
(orizzontalità): «La condition fondamentale de l'acte est la liberté...
Or la liberté n'a pas d'essence. Elle n'est soumise a aucune nécessité
logique; c'èst d'elle qu'il faudrait dire ce que Heidegger dit du Dasein
en général: «En elle l'existence précede et commande l'essence"». Di qui
la definizione sconvolgente della libertà come vuoto permanente,
negatività, negativizzazione... (cf. J. P. SARTRE, L'étre et le néant,
Paris, 1943, p. 513). L'opera termina con la definizione che sanziona la
perdita continua che l'io fa di se stesso: «Une liberté qui se veut
liberté, c'èst en effet un etre-qui-n'est-pas ce-qu'il-est et
qui-est-ce-qu'il-n'est-pas qui choisit, comme idéal d'etre,
l'etre-ce-qu'il-n'est-pas et le n'etre-pas-ce-qu'il-est. Il choisit donc
non de se reprendre, mais de se fuir, non de coincider avec soi, mais
d'etre toujours a distance de soi» (p. 722).
(66)
«Zuerst aber ist das Selbstbewusstsein als unmittelbares in seiner
Natürlichkeit befangen; es ist nur formell frei, nicht das Bewusstsein
seiner unendlichen Freiheit; es ist bestimmt, und daher ist auch sein
Gegenstand ein bestimmter und die Freiheit als Einheit mit ihm nur
formell, nicht die an und für sich seiende» (HEGEL, Vorles, über die
Philosophie der Religion, Lasson 1, p. 260).
La linea speculativa tomista sembra in perfetta coerenza: come Dio, ch'è
lo Ipsum esse intensivo, principio e causa di ogni realtà ed in
particolare causa propria dello actus essendi (esse) partipato dalle
creature, così Dio è il primo principio intensivo cioè totale e
abbracciante (come Causa prima) dell'agire e quindi anche della stessa
libertà secondo l'analogià dell'essere stesso. Si comprende allora che
l'oscuramento a cui è andata soggetta la nozione di actus essendi è la
distinzione capitale di esssentia ed esse subito dopo la morte di S.
Tommaso, trasferita dal piano metafisico profondo a quello
fenomenologico-ontico di esse essentiae ed esse existentiae, poi ridotti
ad essentia ed existentia, ha portato all'oscuramento anche della
nozione di libertà radicale ed al malinteso della controversia De
auxiliis secondo l'opposizione del rigido orizzontalismo di Molina (Dio
e l'uomo come due partners ... sicut duo equi trahentes navim) e del
rigido verticalismo di Bannez. Non a caso anche Bannez tratta l'esse
come existentia e non riesce perciò ad affermare il senso e la portata
metafisica originaria della distinzione tomistica di essentia ed esse
(C. FABRO, L'obscurcisssement de l'esse dans l'école thomiste, Revue
Tomiste, 3 [1958], p. 443 ss.; ID., Participation et causalité,
Louvain-Paris, 1960, p. 280 ss.; ed. it., Torino, 1960, pp. 424 ss., 465
nota, 614 ss.).
(67)
Similmente, con eguale precisione, nella S. Th.: «Deus movet
voluntatem hominis, sicut universalis motor, ad universale obiectum
voluntatis, quod est bonum. Et sine hac universali motione homo non
potest aliquid velle. Sed homo per rationem determinat se ad volendum
hoc vel illud, quod est vere bonum vel apparens bonum. - Sed tamen
interdum specialiter Deus movet aliquos ad aliquid determinate volendum,
quod est bonum: sicut in his quos movet per gratiam, ut infra dicetur»
(I-II, q. 9, a. 6 ad 3).
(68)
Vedi ora lo studio magistrale dei testi e dei principi tomistici,
in questa direzione, di A. GIANNATlEMPO, Il primato trascendentale dela
volontà in S. Tommaso, Divus Thomas 1971 (75), pp. 131-154.
(69)
Preghiere ed elevazioni, ed. Taurisano, Roma, 1920, p. 121 s.
(70)
S. KIERKEGAARD, Diario 1850, X4 A 454; tr. it. di C. FABRO, II ed.,
Brescia, 1962, nr. 2645, t. II, p. 281.